08/09/2006
Epurazione etnica in Sudan e razzismo musulmano
La decisione del governo sudanese di non consentire alle truppe della Nazioni Unite di lanciare l’operazione di pace in Darfur sta dando i suoi frutti: violenza, disperazione e morte. Gli attacchi dei miliziani arabi (i famosi janjaweed, i “diavoli cavallo“ che terrorizzano le popolazioni civili di origine africana bruciando i villaggi, violentando le donne, uccidendo gli uomini e rapendo i bambini) si sono moltiplicati. Ormai queste bande di irregolari sostenuti dal governo di Khartoum sanno di poter contare sull’immunità e si sono riorganizzati. Così i massacri sono ripresi. Non si sa bene se i settemila soldati dell’Unione Africana resteranno nella travagliata regione del Sudan Occidentale dove ora, pur essendo pochi e mal organizzati, fungono, almeno un po’, da deterrente. Le autorità sudansi in un primo tempo avevano intimato di levare le tende a fine settembre poi, poiché è apparsa una richiesta troppo sfacciata, ci hanno ripensato e hanno fatto sapere che le truppe dell’Ua potevano restare, ma non si sa bene fino a quando e con che mandato. In fuga dal Darfur incendiato dalle incursioni dei janjaweed, le popolazioni nere si stanno ammassando ai confini con il Ciad. Centinaia di profughi sono in arrivo nei campi allestiti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) che ospitano già 220 mila persone. “La stagione delle piogge ha in parte fermato l’attività delle milizie filo governative – spiega un funzionario delle Nazioni Unite – ma a fine settembre quando i temporali saranno finiti, c’è il rischio che la situazione si aggravi. Ormai senza testimoni, i diavoli, che non si muovono più a dorso di cavallo e di cammello, ma ora usano nuove 4 per 4 fornite dal governo, possono fare qual che vogliono e hanno avuto mano libera per il genocidio contro le popolazioni del Derfur di origine africana”. Il nostro interlocutore, che ha voluto parlare lontano dal suo ufficio, nel bar di un albergo, chiede di restare anonimo: “La situazione è assai sensibile; le agenzie dell’Onu hanno difficoltà a operare in Darfur – commenta - . Rischiamo tutti di essere espulsi da lì e siamo l’unica salvezza per queste popolazioni che corrono il pericolo di essere sterminate. Da qui il nostro linguaggio ufficiale prudente. In realtà la situazione è gravissima”. “Sì, è vero, il nostro aiuto è limitato; facciamo qual che possiamo e ci rendiamo conto che non è tanto. Abbiamo difficoltà a muoverci e a operare, specie nelle aere più remote. Il governo sudanese pone ogni giorno nuovi ostacoli”, conclude. Qualche giorno fa un giornalista del Chicago Tribune, Paul Salopek, (due volte premio Pulitzer) è entrato clandestinamente in Sudan dal Ciad, è stato arrestato e attualmente è in prigione a El Fasher, la capitale del Darfur settentrionale, incriminato di spionaggio. Sarà giudicato nei prossimi giorni. L’imputazione è ridicola, ma il governo di Khartoum ha colto l’occasione per accusare anche l’Unhcr, che aveva aiutato il reporter a visitare i campi profughi in Ciad, di interferenze e comportamento scorretto. Dopo essere stato rifornito per mesi con armi provenienti dalla Russia (Mosca sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza che prevedeva l’invio di caschi blu si è astenuta, come per altro la Cina), il 28 agosto l’esercito di Khartoum ha lanciato un’offensiva ufficialmente contro i ribelli darfuriani del Jem (Justice and Equality Movement) e delle varie fazioni dell’Sla (Sudan Liberation Army) ma in realtà, grazie anche all’aiuto di un gruppetto dell’SLA guidato da Minni Minnawi, che ora si sono alleato ai Janjaweed, contro le popolazioni civili. Si parla di bombardamenti indiscriminati: “Non solo - aggiunge Esam Elhag, portavoce di un gruppo Sla che ha abbandonato Minnawi accusandolo di tradimento -. Il governo sudanese ha reclutato fondamentalisti che sono arrivati da tutto il mondo islamico, Afghanistan e Iran compresi. Il loro campo è stato piazzato a Saraf Omra, vicino a Kabkabia nel Darfur Settentrionale. Gli integralisti stranieri hanno partecipato agli ultimi attacchi contro i villaggi africani”. Curioso il comportamento di Pechino che vanta ottimi rapporti con Khartoum per avere effettuato enormi investimenti nei campi petroliferi del sud. Una settimana fa il suo ambasciatore all’Onu, Wang Guangya, ha rilasciato un comunicato in cui, dopo aver affermato che il suo Paese intende essere trattato come un “interlocutore internazionale responsabile” dichiarava che la Cina era favorevole all’invio di una forza di pace in Darfur. “Ottima idea e opzione realistica”, aveva aggiunto. Subito dopo aveva dovuto commentare la sua astensione e quindi il blocco dell’iniziativa “perché il Sudan non è pronto ad accettare il contingente per la ragione che non c’è stata sufficiente pressione internazionale per convincerlo”. Bizzarra poi la stessa posizione del governo che considera la forza di pace in Darfur come una violazione della sua sovranità. Non spiega però come mai nel sud del Paese, dopo gli accordi di pace con i ribelli dell’SPLA, accetti un contingente di caschi blu di 20 mila uomini. L’atteggiamento, secondo alcuni osservatori e diplomatici qui a N’Djamena, è chiaro: procedere con il genocidio in modo da spazzar via tutti gli oppositori. “D’altronde - sosteneva un anno fa, parlando con il Corriere a Nyala, la capitale del sud Darfur, Kalil, professore d’inglese – noi sudanesi africani, pur essendo musulmani siamo considerati esseri inferiori, discendenti dagli schiavi. Dunque per gli arabi possiamo essere ammazzati come animali”. Che la pressione dei fondamentalisti in Sudan stia crescendo è evidente dal rapimento, messo a segno da un gruppo di uomini armati lunedì, e successivo assassinio di Mohamed Taha, direttore di Al Wifaq, quotidiano in lingua araba accusato di blasfemia per aver scritto cose non ortodosse sull’ islam e sul suo profeta. Il suo corpo è stato trovato decapitato in vicolo malfamato. Il giornale di Taha (per altro membro della setta islamica dei Fratelli Musulmani) era anticonformista: fondamentalmente filogovernativo, assumeva spesso posizioni provocatorie come l’inchiesta sulla genealogia di Maometto, secondo cui il fratello del profeta avrebbe avuto un nome legato agli idoli preislamici. Qualche tempo fa, quando ancora l’operazione dei caschi blu in Darfur era data solo come una possibilità da discutere in Consiglio di sicurezza, il leader di Al Qaeda, Osama Bin Laden, che era stato ospite del governo di Khartoum fino alla fine degli anni ’90, e il suo braccio destro, Ayman al-Zawahiri, avevano minacciato di organizzare una forza di miliziani per combattere le forze dell’Onu. Forse il califfo del terrore ha anticipato le mosse del Palazzo di Vetro: le sue truppe sono già pronte sul terreno. Massimo A. Alberizzi malberizzi@corriere.it 08 settembre 2006 |
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