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21/09/2015

Raif Badawi non fa notizia

Da mercoledì benpensanti e «liberal» di tutta Europa ripetono di non confondere terrorismo ed islam, assassini e religione. Da ieri farebbero meglio a riflettere su quel che succede nelle terre assoggettate alla legge del "profeta".

E al filo rosso che lega alcuni precetti religiosi al massacro di Parigi. Ieri, a 48 ore dalla strage di Charlie Hebdo , in una piazza dell'Arabia Saudita stracolma di pubblico un boia ha abbassato per 50 volte la sua frusta sulla schiena piagata di Raif Badawi, un blogger 30enne colpevole - come le vittime parigine - di usare la scrittura per esprimere le proprie idee. E non è finita qui. L'atroce scena è destinata a ripetersi, se la vittima sopravvivrà, per venti settimane, fino al raggiungimento della pena di mille frustate e dieci anni di prigione comminata a Badawi il 7 maggio scorso da un tribunale saudita. La storia tragica e terribile di Raif Badawi non è la conseguenza di una mente deviata. Raif non è il bersaglio di un gruppetto d'isolati e sanguinari fanatici. Raif, padre di tre figli scappati con la moglie Ensaf Haida in Canada due anni fa, è vittima di quel regime oscurantista e illiberale che - con la benedizione del clero wahabita - regge l'Arabia Saudita, la nazione custode dei luoghi santi dell'Islam, il simbolo dell'ortodossia religiosa per gran parte della «umma», la comunità musulmana. Lì dove l'Islam è al tempo stesso stato, legge e religione sembra valere, insomma, lo stesso principio che ha spinto i fratelli Chérif e Saïd Kouachi a massacrare un'intera redazione. Il principio secondo cui chiunque esprima idee non consone alla fede islamica possa venir punito con carcere, violenza o morte. La storia del blogger Raif Badawi è, da questo punto di vista, esemplare. La sua odissea giudiziaria e penale inizia il 17 giugno 2012 quando viene arrestato con l'accusa di aver utilizzato il blog per insultare l'Islam. Tutt'oggi non è chiaro cos'abbia scritto Badawi, ma secondo i pochi brandelli di cronaca e verità filtrati dalle rigide paratie del regno saudita avrebbe accusato una celebre università del regno e i suoi educatori di diffondere idee molto vicine a quelle di Al Qaida e del terrorismo islamico. Un'insinuazione che nella culla dell'Islam e del Profeta equivale evidentemente ad un accusa per eresia. Non a caso gli piove addosso anche la terribile imputazione di apostasia, reato che secondo i codici dell'Arabia Saudita, e di tutti i paesi sottomessi ai precetti della sharia, condanna a morte chiunque abbandoni l'Islam. Non a caso quando dopo molti mesi in prigione si ritrova davanti ad una corte distrettuale di Jedda con l'accusa di aver «ridicolizzato le figure religiose dell'Islam», «aver messo in piedi un sito web pericoloso per la sicurezza» e «aver travalicato i confini dell'obbedienza» il giudice si rifiuta di emettere una sentenza. Per il magistrato quei reati sono poca cosa rispetto alla colpa di apostasia giudicabile solo dall'Alta Corte di Jedda. Così per settimane il suo caso rimbalza da un tribunale all'altro fino a quando, il 30 luglio 2013, la stampa saudita informa che Raif Badawi è stato condannato a sette anni di prigione e 600 frustate per aver guidato e diretto un «internet forum», aver «violato i valori islamici e propagato pensieri liberali». Ma evidentemente la pena non soddisfa gli zeloti del regno. Il 7 maggio 2014, infatti, viene emessa una nuova sentenza che condanna il povero Badawi a mille frustate e dieci anni di prigione. I magistrati sauditi hanno intanto sbattuto in carcere anche l'avvocato Walee Abulkhair, il legale di Badawi, accusandolo di aver messo in piedi un'organizzazione per il rispetto dei diritti umani non autorizzata dalle leggi saudite. Nei giorni scorsi gli Stati Uniti, il più importante alleato dell'Arabia Saudita hanno ripetutamente chiesto il rinvio della sentenza e la revisione del giudizio. Ma da Riad non è arrivata alcuna risposta. Solo l'ululato di quell'Allah Akhbar, «Dio è Grande» che ieri - subito dopo la preghiera del venerdì - accompagnava lo schioccare della frusta. Lo stesso ululato che mercoledì mattina accompagnava le raffiche di kalashnikov sparate nella redazione di Charlie Hebdo .

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