Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

10/04/2007

Negoziare con le bestie sataniche?

Adjmal... Adjmal, ci lasciano andare, siamo liberi! Ti rendi conto? Torniamo a casa, a casa". Il mio amico e interprete afgano, Adjmal Naqeshbandi è frastornato. Non capisce cosa gli dico. Mi vede saltellare con la catena che mi stringe le caviglie e accenna ad un timido sorriso. Si alza in piedi anche lui, lascia per terra il bicchiere con il tè giallo ancora pieno e i pezzi di pane della colazione. Si guarda attorno, vede Haji Lalai, il braccio destro del mullah Dadullah, il grande capo che gestisce il nostro sequestro da due settimane. E' il 19 marzo, un lunedì. Il comandante si affaccia dalla piccola finestra della cella e annuncia raggiante: "Good news, good news. Preparatevi, fra due ore tornate a casa".

Mi lancio sul mio amico, lo abbraccio: restiamo così, stretti in questa morsa, per lunghi secondi, le lacrime che ci rigano il viso sporco, pieno di polvere mista a terra. Adjmal sussulta per i singhiozzi che trattiene a fatica. Scuote il capo, non ci crede, non vuole crederci, ha paura di subire l'ennesima delusione. E' accaduto tante volte, può succedere ancora.

Adjmal Naqeshbandi aveva 23 anni, due sorelle e tre fratelli. Si era sposato da sette mesi: un matrimonio con la sua giovanissima fidanzata, 17 anni appena, figlia di un noto chirurgo della provincia di Loghar, a sud di Kabul. Lo avevo conosciuto nel 2001, in piena seconda guerra del Golfo. Si era presentato nella base del contingente italiano, lungo la Jalalabad road, e si era offerto come interprete. Con altri colleghi avevamo alloggiato nella guest house, la Heverest guest house, che Adjmal gestiva insieme al fratello Kebher. Una casa semplice ma accogliente che avrei frequentato per altri tre anni, a volte due mesi di fila, tra la neve che ci assediava nei freddi inverni e il caldo opprimente dell'estate. Lui era sempre lì, sorridente, grassottello, il viso largo, gli occhi scuri, dolci, il filo di barba che si chiudeva in un pizzetto che trattava con cura. L'aria un po' saccente, l'inglese perfetto studiato in Pakistan negli anni dell'esilio durante la lunga guerra civile, il sogno di diventare un giornalista.


I miei viaggi in Afghanistan erano diventati più rari, ma ci sentivamo spesso al telefono, ci scrivevamo molte mail. Mi raccontava dei suoi progressi, dei contatti che aveva accumulato durante la mia assenza. Scriveva per un quotidiano giapponese, collaborava alla Bbc in lingua pashtun, forniva notizie e servizi per giornali statunitensi e britannici. Seguiva i miei consigli, accettava le mie critiche, capiva quando lo avvertivo di fare molta attenzione a chi conosceva, chi incontrava, di verificare sempre, più volte, le sue fonti.
Lo mettevo in guardia sui doppi, tripli giochi della realtà afgana. Lui sorrideva. "Stai tranquillo, ho combattuto con Massud", amava ricordare.

Siamo ancora nella cella. Adjmal è scettico, non crede a quello che dice il comandante Haji Lalai. Ma è vero, ci liberano: i nostri carcerieri, ragazzi poco più che ventenni, irrompono nella nostra stanza con salti di gioia e grida di entusiasmo. Ci abbracciano, ci toccano, ci stringono le mani. Ripetono in coro: "Free, free, you are free". Si avventano sui lucchetti che chiudono le nostre catene ai piedi. Non si possono aprire, non sono mai stati aperti in 15 giorni: hanno perso le chiavi nel deserto. Ci provano in due, poi in tre, quattro, con tutto quello che trovano a disposizione. Iniziano con Adjmal: sono in fondo felici di vederci liberi e di non essere stati costretti ad ucciderci.

Lo avrebbero fatto, senza incertezze: sono dei soldati, e dei soldati fanatici. Colpiscono con furia, poi in modo metodico, con le pietre del deserto, rompono le catene. Il mio interprete allarga finalmente le gambe, saltella, allunga i passi fino al giardino esterno. Ora tocca a me, è un lavoro più facile, i lucchetti saltano dopo i primi colpi con una pietra e un punteruolo. "Bisogna andare, adesso", esorta il comandante, il capo di questa banda di assassini.
All'esterno di questa fattoria, immersa nel distretto di Gramser, sud di Helmand, cuore del territorio Taliban, sono già pronti due convogli. Mi spingono verso il primo, mi volto, saluto con un gesto della mano Adjmal. Mi risponde, lo vedo finalmente sorridere. E' felice, sta andando via dalla prigione; ci crede anche lui. Lo scortano verso un secondo gruppo di auto. "Ci vediamo a Kabul, forse in Italia", mi grida in inglese.

Con la coda dell'occhio vedo Adjmal che sale su un pick up. Chiedo di lui, dove sarà liberato. Il comandante Haji Lalai è generico. "Lo consegniamo ad altri amici". Insisto per conoscere il mio destino. "Tu vai con gli italiani, lui con gli afgani. Helder, capi tribù che garantiranno per noi e per voi". Resto teso, le fasi delle liberazione sono quelle più pericolose. Ma sono felice, torniamo a casa. Entrambi.

Adjmal non lo rivedrò mai più. Sparito, inghiottito nel buco nero dei Taliban. Libero e di nuovo fatto prigioniero. Ancora ostaggio della banda del mullah Dadullah. Forse di nuovo picchiato, interrogato, punito. Minacciato di morte. Ucciso, decapitato. Come Sayed Agha, l'autista, l'altro nostro compagno di viaggio e di lavoro, assassinato in una landa deserta sulla riva del fiume Helmand. Sgozzano Adjmal alle 11 e 30 di domenica 8 aprile, giorno di Pasqua, poco prima della grande preghiera del pomeriggio. I Taliban sono fiscali perfino nei loro comunicati stampa. Una sentenza letta in nome di Allah, scandita dai canti di battaglia degli studenti coranici, le mani legate dietro la schiena, una benda sugli occhi, quattro braccia robuste che ti trascinano sulla sabbia, ti soffocano, un coltello che ti trancia la trachea e poi avanti e indietro, con calma, in un silenzio agghiacciante, fino a tagliarti tutto il capo, il tronco monco che si dibatte, il sangue che schizza da tutte le arterie: così io e Adjmal avevamo visto uccidere Sayed. Un gesto barbaro, crudele. Una morte ingiusta, gratuita, vigliacca.

Avevo rivisto Adjmal il 21 febbraio scorso. Era raggiante di lavorare di nuovo con me. Ma era diverso, cambiato. Nel fisico e nell'animo. Restava spesso assorto nei suoi pensieri, non mi parlava più con lo slancio e l'entusiasmo di prima. "La mia famiglia", ripeteva spesso, "conta solo su di me. Sono io a dover provvedere a tutto". I grandi progetti di una nuova pensione, un ristorante, persino di una stazione di benzina con autolavaggio erano rimasti nel cassetto. Il fratello maggiore era emigrato in Belgio come esiliato politico. Quello minore, tutto proiettato nel suo futuro di tecnico informatico. Ma conservava anche molti segreti, insondabili, che non mi rilevava. Adjmal aveva scelto di fare il reporter, teneva strette le sue fonti. Viveva di queste. Ci era riuscito. E lo dichiarava con orgoglio: "Senza togliere meriti a nessuno, sono l'unico che ha veri contatti con i Taliban. Ho già realizzato, la settimana scorsa, tre interviste con il mullah Dadullah. Con un collega inglese di al Jazeera, una francese e tre afgani. Possiamo farla anche noi. E' tutto pronto, ci aspettano". Niente scoop, quasi una routine. L'ultimo colpo, vittime di una trappola più grande di noi.
DANIELE MASTROGIACOMO su La Repubblica

Les commentaires sont fermés.