Omar al Beshir non è un criminale, è altro e peggio: è la figura contemporanea più forte di raìs jhadista, che racchiude nel suo regime tutti gli elementi fondanti l’Islam fondamentalista. Non è un pazzoide come l’ugandese Ida Amin Dada, o un despota sanguinario come Robert Mugabe: è un politico a tutto tondo, che ha scatenato guerre civili che hanno mietuto milioni di morti nel nome dell’Islam, di un progetto legittimato dai più accreditati teologi del fondamentalismo contemporaneo. Per questo, oltre che per la sua impraticabilità (come si vede dalla solidarietà che ha ricevuto da Cina, Russia, Sudafrica, Iran e da tutti gli Stati africani), il mandato di cattura emesso a suo carico dal Tpi si rivelerà un boomerang. E’ infatti troppo e troppo poco. Troppo, perché addensa sulla sua testa le responsabilità che sono di un intero gruppo dirigente fondamentalista che l’accompagna dal 1989, con molti alleati (incluso Yasser Arafat), troppo poco, perché incendia la prateria (e 200.000 sudanesi assistiti dalle Ong internazionali da lui subito espulse, da ieri sono alla fame e senza cure), senza che nessuno abbia idea di come fermare le fiamme. Il suo progetto può essere definito criminale, ma altri non è, se non quello della costruzione di uno Stato islamico fondamentalista. Il suo golpe del 1989 ebbe solo uno scopo: portare a compimento la guerra contro i cristiani e animisti del sud, che rifiutavano l’imposizione della shari’a stabilita dal Jafar Nymeiri nel 1981. Tutti sanno del disastro umanitario prodotto da quel conflitto, ma nessuno ricorda che è stata la prima guerra civile per imporre la shari’a nella modernità (una sentenza una sentenza della Corte Suprema sudanese definì “lecita la crocifissione di cristiani quali apostati dell’Islam”). Al Beshir, che estese la shari’a al campo penale nel 1991, la condusse con competenza militare (era stato generale nella guerra del Kippur del 1973), e in piena alleanza con i Fratelli Musulmani e col loro leader, Hassan al Turabi, che fornì al suo regime l’apporto di una vasta élite politico-amministrativa. Il tutto in sintonia con l’Iran khomeinista con cui concluse nel 1991 un patto militare segreto. Sempre all’interno di questa ottica, al Beshir costituì nel 1990-91 il nucleo duro e jihadista di contrapposizione alla Lega Araba che aveva promosso l’intervento Onu e Usa per impedire l’annessione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Di nuovo, non solo una scelta jihadista, ma anche l’impegno, sempre assieme ai Fratelli Musulmani, per fare del Sudan il punto di riferimento politico dell’opzione fondamentalista. La successiva ospitalità e collaborazione con al Qaida e Osama bin Laden (che ripagò costruendo un’autostrada da Khartum al mare), fino al 1996 erano omogenei a quel progetto. Stesso contesto anche dietro la guerra in Darfur, condotta nel nome della superiorità dei musulmani arabi su quei musulmani delle etnie africane che ancora oggi vengono chiamati “gli schiavi” a Khartum. Una guerra per imporre la struttura centralista dello stato islamico, per stroncare tutte le spinte centrifughe nel momento in cui l’accordo di pace del 2005 con i cristiani e gli animisti del Sud (grande successo diplomatico di George W. Bush), rischia di fallire. Gli Janjaweed di Al Beshir hanno provocato 300.000 vittime in Darfur, essenzialmente per impedire che si crei un asse secessionista tra l’ovest del paese (il Darfur) e il sud che di nuovo minaccia la secessione, là dove si pompa quel petrolio che ha garantito ad al Beshir l’alleanza della Cina (che ne acquista il 65%) e della Russia. Un quadro tutto politico, complesso, che le procedure legali già ridicolizzate dal processo a Milosevic del Tpi, non potranno mai dominare e che rischia oggi di consegnare ad al Beshir la straordinaria vittoria politica di una solidarietà africana totale e forse anche la beffa, già preannunciata, di una sua trionfale partecipazione al prossimo vertice della Lega Araba, là dove nessuno –Onu o non Onu- oserà mettergli certo le manette.
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