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16/10/2011

Pulizia etnica: razza araba contro razza nera

TAWARGHA - Le palazzine bruciano piano. Un lavoro metodico, svolto senza fretta. Quelle che non si incendiano subito restano dimenticate per qualche giorno: porte e finestre sfondate, tracce di fumo sui muri, stracci di vestiti e schegge di mobili sparsi attorno. Poi gli attivisti della rivoluzione tornano ad appiccare il fuoco aiutandosi con la benzina ed il risultato è assicurato. Nei viottoli sporchi sono abbandonati alla loro sorte cani, galline, conigli, muli, pecore, mucche. Ogni tanto giunge una vettura dalla carrozzeria dipinta con i simboli del fronte anti-Gheddafi e si porta via gli animali. Gli orti sono secchi, è dai primi di agosto che nessuno si occupa di irrigarli. A parte il crepitare sommesso degli incendi, il silenzio regna sovrano. Una calma immobile, minacciosa, inquietante, spaventosa. Un benzinaio sulla provinciale poco lontano ci ha detto che non sarebbe difficile trovare la terra smossa delle fosse comuni. Ma è pericoloso, le pattuglie della guerriglia non amano curiosi da queste parti.

Sono le immagini della pulizia etnica di Tawargha, piccola cittadina una trentina di chilometri a sud-est di Misurata. Ricordano i villaggi vuoti della ex-Jugoslavia negli anni Novanta. L'episodio che con maggior forza due giorni fa ci ha trasmesso la gravità immanente dei crimini consumati in questa zona è stato l'incontro con quattro ragazzi della «Qatiba Namr», una delle brigate di Misurata nota per le doti di coraggio e resistenza dimostrati al tempo dell'assedio delle milizie scelte di Gheddafi contro la «città martire della rivoluzione» in primavera. «Qui vivevano solo neri. Negri stranieri. Nemici dalla pelle scura che stavano con Gheddafi. Ucciderli è giusto. Se fossi in loro scapperei subito verso sud, in Africa. Qui non hanno più nulla da fare, se non morire», affermano sprezzanti. Viaggiano su di una Toyota dalla carrozzeria coperta di fango. Sono tutti armati di Kalashnikov. Portano scarpe da tennis, magliette scure e blu jeans. Dicono di avere diciannove anni, ma potrebbero essere anche più giovani. Brufoli e sguardo di sfida, con il dito sul grilletto si sentono padroni del mondo. «Siamo venuti ad assicurarci che nessun cane nero cerchi di tornare. Devono sapere che non hanno futuro in Libia», sbotta quello che sta al volante. Sostiene di chiamarsi Mustafa Akil, però non vuole essere fotografato, così neppure gli altri.

A Tawargha ci siamo arrivati quasi per caso. Tornando da Sirte verso Tripoli, giunti poco prima delle periferie orientali di Misurata, è stato impossibile non vedere le colonne di fumo degli incendi. Sono almeno una ventina. Si nota in particolare una palazzina a cinque piani divorata dalle fiamme rosse che si allungano dai balconi. Nel parcheggio sottostante sono fermi almeno cinque pick up delle forze della rivoluzione. Ci avviciniamo. Ma i miliziani ordinano di restare lontani. «C'erano circa 40.000 negri. Sono partiti tutti. Tawargha non esiste più. Ora c'è solo Misurata», si limita a ripetere uno di loro, barba fluente e occhiali neri. Sui cartelli stradali il nome della città è stato cancellato con vernice bianca, al suo posto è scritto quello di «Nuova Tommina», un villaggio delle vicinanze che era stato attaccato dai lealisti in aprile.

La storia non è nuova. Le cronache della resa delle truppe fedeli al Colonnello a Tawargha contro le colonne dei ribelli di Misurata sostenuti dai bombardamenti Nato era arrivata il 13 agosto. E quasi subito Amnesty International e altre organizzazioni per la difesa dei diritti umani avevano denunciato massacri, abusi di ogni tipo e soprattutto deportazioni di massa. Unica scusa addotta dai ribelli era stata che proprio gli abitanti di Tawargha erano stati tra i più crudeli «mercenari africani» nelle file nemiche. Ma poi le cronache della caduta di Tripoli e gli sviluppi seguenti avevano preso il sopravvento. Il 18 settembre un inviato del Wall Street Journal citava il presidente del Consiglio Nazionale Transitorio, Mustafa Abdel Jalil, che dava il suo placet alla totale distruzione della cittadina. «Il fato di Tawargha è nelle mani della gente di Misurata», sosteneva Jalil, giustificando così appieno i crimini di guerra.

La novità verificata sul campo è però che la pulizia etnica continua. Nonostante le rassicurazioni contro ogni politica razzista e in difesa delle minoranze nere in Libia fornite a più riprese alla comunità internazionale dai dirigenti della rivoluzione, a Tawargha si sta portando a termine del tutto indisturbati ciò che era iniziato ad agosto. I muri delle case devastate sono imbrattati di slogan freschi contro i «murtazaka», come qui chiamano i «mercenari» pagati dalla dittatura di Gheddafi. Sono firmati in certi casi dalle «brigate per la punizione degli schiavi neri» e trasudano il razzismo più virulento. In verità, molti degli abitanti nella regione di Tawargha sono discendenti delle vittime delle razzie a caccia di schiavi organizzate in larga scala dai mercanti arabi della costa per secoli sino alla metà dell'Ottocento nel cuore dell'Africa sub-sahariana. Libici a tutti gli effetti, figli di libici, sono ora tra le vittime più deboli del caos e delle incertezze in cui è scivolato il Paese. Nessuno conosce ancora le cifre dei loro morti e feriti. Le nuove autorità di Tripoli non rendono noti i numeri dei prigionieri.

 

E quando la fanno sono spesso contradditori e impossibili da verificare. Di tanto in tanto si viene a conoscenza di ex abitanti di Tawargha arrestati nei campi profughi e nei quartieri poveri attorno a Tripoli. Le voci di violenze carnali contro le donne sono ricorrenti. Molti giovani sarebbero ora tra i combattenti irriducibili negli assedi di Sirte e a Bani Walid. Altri sarebbero riusciti ad unirsi ai Tuareg nel deserto verso Sabha. Sono motivati dalla consapevolezza che la «caccia al negro» non si ferma. Due giorni fa, durante gli scontri a Tripoli tra milizie della rivoluzione e sostenitori di Gheddafi, i primi ad essere arrestati erano i passanti di pelle nera.

Lorenzo Cremonesi
16 ottobre 2011  www.corriere.it

14/10/2011

Mitterrand et les magouilles socialo-massoniques

En 1988, la campagne du président fut en partie payée grâce à des sociétés qui servirent de "pompe à fric". Un système révélé par l'inspecteur de police Antoine Gaudino. Souvenirs. 

La droite n'a jamais eu le monopole des dérives financières. La gauche, elle aussi, a parfois eu recours à des circuits occultes. A la fin des années 1980, le Parti socialiste se retrouva ainsi au coeur d'une enquête conduite à Marseille par deux inspecteurs de la section financière du service régional de police judiciaire. L'un d'eux, Antoine Gaudino, en fit l'affaire d'une vie et le thème d'un best-seller, "L'Enquête impossible" (Albin Michel, 1990). Un homme y tient un rôle central: le président de la République François Mitterrand. En toile de fond: sa campagne victorieuse de 1988, en partie financée par de l'argent noir. 

Les faits sont anciens, mais l'ex-policier en garde un souvenir très vif. Cet homme de 67 ans demeure à jamais le "flic" qui fit trembler la Mitterrandie. "A l'époque, se souvient-il, il y avait une hypocrisie totale, à droite comme à gauche, sur la corruption. Pour sa campagne, Mitterrand a bénéficié de 25 millions de francs, et il n'a jamais été poursuivi! Ces dérives m'ont d'autant plus choqué qu'à titre personnel j'avais l'habitude de voter socialiste."  

Sur des cahiers, les comptes occultes.

La campagne présidentielle de François Mitterrand en 1988 mobilisa les "bureaux d'études" considérés comme les "pompes à fric" du PS. Les enquêteurs en eurent la preuve l'année suivante lors d'une perquisition dans les locaux d'un de ces bureaux, Urba-Gracco, à Marseille. Ils saisirent alors des cahiers d'écolier dans lesquels un cadre, Joseph Delcroix, avait noté, réunion après réunion, tous les éléments liés au financement occulte: les dates, les sommes, les noms des personnalités socialistes concernées. L'Elysée est omniprésent dans ces documents. Dès le 30 mars 1987, Delcroix écrit: "Maintenant, il faut penser aux présidentielles." Le 11 mai de la même année, les besoins sont chiffrés: 100 millions de francs, dont 25 millions à la charge d'Urba-Gracco. Le 26 octobre, il dresse une liste d'entreprises auxquelles, dit-il, "on pourrait soutirer de l'argent" : Bouygues, Spie Batignolles, Compagnie générale des eaux...  

Tout commence en 1989, à Marseille, au détour d'investigations menées par Gaudino et son collègue Alain Mayot. Alors qu'ils travaillent sur un dossier de fausses factures impliquant des entreprises de la région, ils mettent au jour une technique de financement politique: diverses sociétés, présentées comme des "bureaux d'études", sont en réalité des "pompes à fric" du PS. Leur rôle consiste à démarcher les patrons afin de collecter des fonds par un système d'études fantaisistes et de surfacturations. En échange, les plus généreux pourront compter sur l'appui d'élus locaux pour décrocher des contrats. Dans tout autre pays, on parlerait de corruption. En France, il est pudiquement question de "soutien" politique. Un soutien dont a su profiter Mitterrand. "Il avait lui-même mis en place ce système dès le congrès d'Epinay, en 1971", rappelle l'ex-policier. 

Deux lois d'amnistie, votées en 1988 et 1989, permettent aux dirigeants socialistes de s'en tirer in extremis dans le volet marseillais du scandale. Gaudino, lui, est écarté de la police après la publication de son livre. "Sous le contrôle de l'Elysée, le travail de la justice a été entravé", poursuit-il. Les verrous finiront tout de même par sauter au début des années 1990. L'affaire rebondit alors dans l'ouest de la France, sous l'impulsion de juges très pugnaces, d'abord Thierry Jean-Pierre, puis un certain Renaud Van Ruymbeke, aujourd'hui chargé d'enquêter sur la campagne d'Edouard Balladur en 1995. 

Extrait de www.lexpress.fr

10/10/2011

Tunisie: les salaphistes mettent le feu

La tension demeurait vive dimanche 9 octobre à Tunis, où des policiers anti-émeutes ont fait usage de gaz lacrymogènes pour tenter de disperser plusieurs centaines d'islamistes qui les attaquaient à coups de pierres, de couteaux et de bâtons.

Les islamistes protestaient contre l'interdiction faite aux femmes portant le niqab, ou voile intégral, de s'inscrire à l'université, mais aussi contre la décision d'une chaîne de télévision privée tunisienne d'avoir diffusé vendredi le film d'animation franco-iranien Persepolis, où figure une représentation d'Allah, ce qu'interdit l'islam. La diffusion était suivie d'un débat sur l'intégrisme religieux. Les islamistes se sont rassemblés devant le principal campus universitaire de la capitale, d'où ils se sont dirigés vers le quartier populaire de Djebel El-Ahmar, au nord du centre, où ont eu lieu les échauffourées.

Le siège de la télévision privée tunisienne Nessma a été pris d'assaut dimanche par quelque deux cents salafistes. "Les salafistes, rejoints ensuite par une centaine d'autres personnes, se sont dirigés vers Nessma pour attaquer la chaîne. Les forces de l'ordre sont intervenues et ont dispersé les assaillants", a annoncé le ministère de l'intérieur.

"Après la diffusion de Persepolis il y a eu des appels sur Facebook à brûler Nessma et à tuer les journalistes, a raconté le président de la chaîne, Nebil Karoui. Nous sommes habitués aux menaces mais ce qui est grave c'est que cette fois-ci ils sont passés aux actes. Nessma est la chaîne moderniste du Maghreb, on ne se laissera pas intimider et nous continuerons à diffuser les films qu'on veut. On n'a pas chassé une dictature pour revenir à une autre."

La police protège désormais le siège de la chaîne. Plusieurs journalistes de Nessma ont fait part de leur vive inquiétude, certains craignant que les autres locaux de la chaîne en région soient également ciblés. Cette attaque menée par des intégristes intervient au lendemain de l'invasion par des hommes armés de la faculté de lettres de Sousse, ville à 150 km au sud de Tunis, après le refus d'inscription d'une étudiante en niqab conformément aux directives gouvernementales

La tension monte entre les islamistes tunisiens et les laïques, lesquels dominent l'élite dirigeante, à l'approche des élections à l'assemblée constituante le 23 octobre, lors desquelles le parti islamiste Ennahda devrait arriver en tête. Le gouvernement de transition, au pouvoir depuis la chute du président Zine El-Abidine Ben Ali en janvier, a autorisé pour la première fois les islamistes à présenter des candidats, mais les organisations laïques estiment désormais que leurs valeurs libérales, modernes, sont menacées.

Les affrontements de dimanche "sont un très mauvais signe avant la tenue d'élections démocratiques", a déclaré l'analyste Salah Attya. "Le climat n'est pas bon. Il y a certains partis ou courants qui font tout pour que la situation explose avant l'élection", a-t-il poursuivi.

Pour une cadre de la chaîne, citée anonymement par l'AFP, cette attaque doit inciter les Tunisiens à se rendre aux urnes. "J'espère que ce genre d'événement va pousser les citoyens indécis à aller voter le 23 octobre, car le danger [intégriste] est imminent", a-t-elle ajouté.

Le parti Ennahda s'était publiquement démarqué des salafistes – dont le parti Tahrir n'a pas été légalisé – après l'attaque, fin juillet, d'un cinéma de Tunis qui avait diffusé un film de Nadia El-Fani sur la laïcité. Dimanche, un de ses responsables a condamné cette nouvelle attaque. "On ne peut que condamner ce genre d'incident. Il ne faut pas brouiller les cartes et les gens doivent garder leur calme. Si les gens ont des critiques à faire contre Nessma, ils doivent s'exprimer dans la presse, pas utiliser la violence", a dit Samir Dilou, membre du bureau politique d'Ennahda, qualifiant ces attaques "d'actes isolés".

Le PDP (Parti démocrate progressiste) a également "condamné énergiquement" l'attaque de Nessma alors que le parti Ettakatol (gauche) a exprimé "sa solidarité" avec Nessma et insisté sur "le droit à la liberté d'expression". Persepolis, dont c'était la première diffusion en arabe dialectal tunisien, sera à nouveau à l'antenne de Nessma mardi soir.

www.yahoo.fr

Che gioia convivere con i musulmani!

Ventiquattro morti e oltre duecento tra militari e manifestanti durante scontri scoppiati nella notte tra domenica e lunedì nel centro del Cairo, davanti alla sede delle televisione di stato, nel corso di una protesta a cui partecipavano migliaia di copti. Secondo alcune fonti i feriti tra i manifestanti sarebbero stati vittime prima di lanci di pietre e bastoni e poi di colpi d'arma da fuoco sparati non è chiaro da chi. In un primo momento era stato riferito di elementi legati al vecchio partito dell'ex presidente Hosni Mubarak, ma poi si è parlato anche di persone legate ai Fratelli musulmani. Da notizie apprese successivamente sembra che, mentre i soldati sparavano per disperdere alcune migliaia di manifestanti radunatisi sul lungo Nilo, tra i manifestanti qualcuno avrebbe sparato contro di loro. Dal gruppo dei dimostranti sarebbero partite anche bottiglie molotov e lanci di pietre contro i soldati. Un mezzo della polizia è stato incendiato. A questo punto i militari avrebbero risposto al fuoco facendo una strage.

VIOLENZE - Gli scontri sono iniziati nel quartiere di Shoubra nel nord della capitale per poi allargarsi lungo il Nilo nella zona di Maspero davanti alla sede della di Stato e a piazza Tahrih. I copti, che protestano per una chiesa data alle fiamme la scorsa settimana nella provincia di Assuan, si sono scontrati per ore con i soldati. Alcuni copti si sarebbero impadroniti in precedenza delle armi prelevate da un veicolo militare dato alle fiamme e le avrebbero poi usate contro i militari. I copti rappresentano il 10% dei circa 80 milioni di egiziani.

BATTAGLIA CON I MUSULMANI - Gli scontri tra copti e militari sono poi degenerati in violenze interconfessionali tra musulmani e copti con centinaia di persone che si sono battute a colpi di pietre e bastoni nei quartieri del Cairo. La situazione è esplosiva. Mentre il governo è stato convocato in una riunione d'emergenza tra 200 e 300 di musulmani hanno marciato sull'ospedale dove sono stati raccolti i cadaveri degli scontri con la polizia in serata e dove sono stati curati i 156 feriti copti. Diverse auto sono state date alle fiamme e alcuni copti hanno prelevato benzina dai serbatoi di altri veicoli con cui hanno preparato bombe molotov. «Dio è con noi, Cristo è con noi. Loro vogliono che (l'Egitto sia uno Stato) islamico, ma noi non ci arrenderemo», inneggiano i copti. Sul fronte opposto i musulmani ripetono senza sosta, «Islam, Islam, Islam». Il governo ha dichiarato il coprifuoco in alcuni quartieri del Cairo.

L'APPELLO - Nella notte tra domenica e lunedì il primo ministro egiziano Essam Sharaf ha lanciato un appello alla calma con un discorso trasmesso dalla tv e con un messaggio sulla sua pagina ufficiale sul social network Facebook. «La nazione è in pericolo a seguito di questi eventi», ha detto sharaf in un discorso trasmesso dalla televisione pubblica. «Questi eventi ci hanno riportato indietro, invece di andare avanti per costruire uno Stato moderno su delle sane basi democratiche». «La cosa più pericolosa che possa minacciare la sicurezza della nazione - ha aggiunto - è di giocare con la questione dell'unità nazionale e di provocare la sedizione tra cristiani e musulmani e anche tra il popolo e l'esercito». «È questo lo scopo (di queste violenze, ndr) ma noi non cederemo a questi complotti perniciosi e non accetteremo un ritorno indietro», ha concluso, esortando gli egiziani «alla coesione e all'unione». Il prossimo 28 novembre inizieranno in Egitto le elezioni legislative, le prime del dopo Mubarak, che dureranno quattro mesi.

Redazione Online www.corriere.it
09 ottobre 2011

06/10/2011

Culture de la haine

Cinq jeunes Isérois comparaissent jeudi devant le tribunal correctionnel de Grenoble pour avoir passé à tabac et poignardé en pleine rue un géographe de 23 ans, au printemps 2010, le laissant entre la vie et la mort.

Le 9 avril 2010, vers 23H00, Martin était violemment pris à partie par une dizaine de jeunes dans le centre-ville de Grenoble alors qu'il sortait du tramway, au retour d'une soirée, en compagnie de trois amis.

Selon ses proches, un prétexte futile est à l'origine de l'altercation: la petite amie de Martin avait refusé une cigarette à l'un des agresseurs, car elle venait tout juste d'allumer la dernière de son paquet.

Après un échange d'insultes, Martin avait été roué de coups de poings et de coups de pieds. Tombé au sol, il avait alors reçu deux coups de couteau. Un de ses amis avait lui aussi été blessé en tentant de s'interposer.

Souffrant d'une grave hémorragie, de lésions multiples et d'un poumon perforé, Martin ne fut sauvé que d'extrême justesse après deux interventions chirurgicales et une réanimation intensive au CHU de Grenoble.

Il n'a pu reprendre une activité professionnelle à temps plein que le 15 juillet 2010, plus de trois mois après son agression.

Ce fait divers suscita une vive émotion à Grenoble, et Brice Hortefeux, alors ministre de l'Intérieur, s'était rendu au chevet de la victime.

Eviter trois procès

La plupart des suspects furent arrêtés les jours suivant l'agression grâce aux images de vidéo-surveillance du tramway. La bande de jeunes s'était fait remarquer le soir-même par son comportement. Chahutant, proférant des insultes, buvant du pastis (?) et fumant, ils avaient été expulsés du tramway par des agents de prévention juste avant l'agression.

Sur les dix suspects mis en cause, seuls cinq sont jugés jeudi par le tribunal correctionnel. Les autres, mineurs au moment des faits, le seront ultérieurement par le tribunal des enfants.

Parmi les prévenus, Saad Bensaou, alors âgé de 19 ans, risque la plus forte peine. Déjà condamné pour violence aggravée et vol en réunion en 2009, il a été désigné par plusieurs autres prévenus comme l'auteur des coups de couteaux. Il se serait même vanté d'avoir "charclé" ou "planté" la victime auprès de ses amis, selon une source proche de l'enquête.

Bensaou a en outre été filmé dans une rame de tramway peu après l'agression en train de nettoyer la lame d'un couteau. Niant d'abord les faits, il a ensuite prétendu que la victime était tombée sur son opinel. Il a enfin affirmé qu'il l'avait blessé involontairement.

Né en Algérie d'un père maçon, Saad Bensaou n'avait pas de travail depuis plus d'un an au moment des faits, ayant abandonné sa scolarité après avoir échoué à décrocher un BEP d'électrotechnique.

Initialement mis en examen pour tentative de meurtre, ce qui est passible des assises, Bensaou a finalement été renvoyé en correctionnelle pour violences volontaires avec arme et en réunion, en accord avec la victime. Cela afin d'éviter trois procès pour une même affaire, aux assises, en correctionnelle et devant le tribunal des enfants.

Par Antoine AGASSE sur www.lesechos.fr