Ok

En poursuivant votre navigation sur ce site, vous acceptez l'utilisation de cookies. Ces derniers assurent le bon fonctionnement de nos services. En savoir plus.

20/09/2017

Apartheid volontario islamico

Roma, 19 settembre 2017

Oggi in Italia non esiste un profilo standard dell’immigrato, ma il comportamento dei musulmani è fortemente condizionato dall’età.

Si dividono, infatti, in due macro gruppi: gli over 54 sono oltranzisti, conservatori e non hanno intenzione di integrarsi. Nei più giovani, invece, la spinta verso l’Italia è un po’ diversa: circa la metà si sente integrata (45%) e l’altra metà si divide tra chi vuole integrarsi (ma non ci riesce) e chi proprio non vuole.

Due universi di riferimento complementari, decisioni generazionali: i giovani non sono apertissimi verso la cultura occidentale, ma risultano più incuriositi.

Col crescere dell’età c’è una vera chiusura verso l’occidente.

Sei immigrati musulmani su dieci si dichiarano non integrati (58%), ma il dato critico è che il 31% (un terzo del totale) non vuole integrarsi, mentre un ulteriore 28 per cento vorrebbe, ma non ci riesce.

I motivi di queste difficoltà e ritrosie sono legati al lavoro e alla lingua, due temi spinosi per gli stranieri in Italia.

Il processo di inserimento nella nostra società è condizionato dall’età: i più giovani ci provano, i meno giovani no. Le porte dell’Italia verso altri immigrati sono chiuse da parte degli islamici: solo il 43% sostiene che l’Italia dovrebbe accogliere altri profughi, mentre il 33% è convinto che serve un freno. Quasi a confermare che gli immigrati percepiscono la loro posizione di difficoltà: «Se arrivano altri stranieri, per noi che già facciamo fatica è un problema ulteriore». Nel Centro Italia vive gran parte della popolazione musulmana, lì si trova anche lo zoccolo più conservatore.

La spiegazione? Si tratta di una zona vista come un paradiso ‘politico’ per gli immigrati, il Centro storicamente era il territorio più tollerante verso i nuovi arrivati. I più adulti comunque hanno un dna oltranzista e restano ancorati alla propria ideologia: si concentra, infatti, una sacca di musulmani ‘chiusi’.

Il luogo comune secondo cui gli immigrati nel Belpaese sono di passaggio viene abbattuto: chi è qui, vuole rimanere. Circa la metà pensa di restare per sempre (43%) e fra questi prevale la quota degli over 54, gli ‘ortodossi’ (80%).

Solamente il 13% degli immigrati dichiara di essere di passaggio (andarsene entro 3 anni). Circa la metà dei musulmani è nel nostro Paese da più di 5 anni: se non si è già integrato, è difficile che possa farlo in futuro. Dall’altro lato, il giudizio sull’Italia è positivo: il 62% afferma di trovarsi bene nel nostro Paese. I più positivi risiedono al Sud, mentre al Centro molti (il 41%) dicono di trovarsi male. Un’altra criticità è il lavoro, vero problema dell’immigrazione, che genera difficoltà a integrarsi: chi non lavora, fa più fatica e ha meno voglia di essere parte di un progetto, di una cerchia sociale.

Solo il 27% dei musulmani ha un lavoro stabile e il 24% dice di non lavorare (!!!!!!!!): la disoccupazione in Italia è circa all’11%, all’interno del popolo degli immigrati raddoppia. Se a questi si aggiunge il 33% che sostiene di non avere un lavoro stabile, la forbice di immigrati che non riesce a mantenersi con il proprio lavoro si allarga al 50-60%. E’ importante l’area di residenza, perché la professione degli immigrati rispecchia le problematiche dell’Italia: chi non ha un posto di lavoro stabile risiedemaggiormente al Sud (57%,), al Nord prevale la quota di chi ha un lavoro stabile (42%). Indicatore indiretto della volontà di integrazione è anche l’amicizia: uno su due (55%) dice di avere amici italiani ed è molto forte la risposta in relazione all’età.

Tra i giovani l’amicizia con italiani sale al 61%, mentre tra gli anziani arriva solo al 19%, a conferma di una sorta di chiusura di degli over 54. Anche il fatto di avere amici italiani prevale per immigrati al Sud, rispetto al Centro. IL 64% degli immigrati svolge la propria vita sociale nella comunità islamica: il 92% degli over 54 dice di avere relazioni solo nel proprio clan, quota che scende al 73% tra i 35-54enni e cala a chi ha fino a 34 anni. I più giovani cercano relazioni fuori dalla comunità, i più adulti sono bloccati. Rispetto alla lingua italiana, altra importante criticità, uno su due afferma di conoscerla bene (47%): gli anziani sono ancora indietro nella classifica (23%). Il 38% sostiene che un suo figlio dovrebbe sposare solo una persona musulmana, quota non maggioritaria ma importante. Significa che quattro su 10 sono chiusi verso altre religioni: si trovano più al Nord (40%) che al Sud (12%).

FONTE : http://www.quotidiano.net/politica/musulmani-in-italia-1.3406983

18/09/2017

Renzi e Gentiloni amano l'Arabia Saudita

Imporre un embargo sulla vendita di armi all’Arabia Saudita, a chiederlo è il Parlamento Europeo, che negli ultimi anni a più riprese sollecita gli Stati membri a garantire il controllo delle esportazioni europee di sistemi militari. Quelle bombe italiane all’Arabia Saudita.

Un possibile embargo sulla vendita di armi ai sauditi riguarderebbe direttamente anche l'Italia, la quale fornisce sistemi militari all'Arabia Saudita, ovvero sia bombe sganciate sullo Yemen. Si tratta di una guerra dimenticata, che provoca però tuttora morti civili.

La legge 185 vieta la vendita di armi a Paesi in guerra o responsabili di gravi violazioni di diritti umani, ma ciò non ha impedito ai governi italiani di fornire armi ai sauditi per centinaia di migliaia di euro. Ora a chiedere di cessare le forniture all'Arabia Saudita è lo stesso Parlamento Europeo, ma l'attuazione dell'embargo ricade sui singoli Stati membri. Tuttora infatti non esistono misure sanzionatorie né un'autorità di controllo competente. Per fare il punto della situazione sull'export di armi italiane all'Arabia Saudita Sputnik Italia ha raggiunto Giorgio Beretta, analista dell'Osservatorio sulle armi (OPAL) e della "Rete Italiana per il Disarmo".

— Il Parlamento europeo ha proposto un embargo sulla vendita di armi all'Arabia Saudita. Giorgio Beretta, qual è il suo punto di vista?

— La richiesta è all'interno di una risoluzione del Parlamento europeo che riguarda il controllo delle esportazioni di sistemi militari dei paesi membri. È molto rilevante perché l'Europarlamento ha deciso di rinnovare, per la terza volta in due anni, l'invito all'Alto Rappresentante per la politica estera, Federica Mogherini, a "avviare un'iniziativa finalizzata all'imposizione da parte dell'UE di un embargo sulle armi nei confronti dell'Arabia Saudita" in riferimento all'intervento militare della coalizione a guida saudita in Yemen. Un intervento — va ricordato — che non ha avuto alcuna legittimazione da parte delle Nazioni Unite che hanno solo "preso atto" della richiesta del presidente deposto di un intervento militare a protezione della popolazione. Cosa è successo è sotto gli occhi di tutti: a quasi 900 giorni dall'inizio dell'intervento militare, le agenzie dell'Onu riportano un altissimo numero di vittime, più di 10mila morti fra i civili, tra cui migliaia di bambini. Un rapporto delle Nazioni Unite afferma che le azioni militari della coalizione saudita in Yemen come azioni che possono costituire crimini di guerra, cioè la massima espressione che può dare un comitato di esperti.

— Com'è risaputo, l'Italia vende armi all'Arabia Saudita. Di fatto l'Italia viola le normative nazionali che vietano la vendita di armi a Paesi in guerra?

— Nel rapporto delle Nazioni Unite viene documentato anche l'impiego di ordigni italiani per bombardare zone civili in Yemen. Sono le bombe prodotte dall'azienda italiana RWM Italia che sono prodotte ed esportate con l'autorizzazione del governo italiano. Sia da parte del governo Renzi, che le ha autorizzate, sia del governo Gentiloni che sta continuando a permettere le spedizioni. La legge italiana, la n.185 del 1990, vieta espressamente l'esportazione di sistemi militari "a paesi in conflitto armato" e, qualora il governo intenda esportare armamenti in queste zone, richiede che venga consultato il Parlamento.

Alcuni Paesi dell'Unione europea come la Svezia e l'Olanda hanno deciso di sospendere l'invio di armamenti all'Arabia Saudita. Altri Paesi come la Germania hanno optato per sospendere le forniture di sistemi militari che potrebbero essere utilizzati dalla coalizione saudita nel conflitto in Yemen. L'Inghilterra, la Francia e l'Italia invece stanno proseguendo con le esportazioni. L'Italia nel 2016 ha autorizzato l'esportazione di quasi 20 mila bombe aeree per un valore di oltre 411 milioni di euro: è la maggiore esportazione di bombe mai effettuata dall'Italia dal dopoguerra. Vi è quindi una chiara decisione politica.

— C'è stata qualche iniziativa da parte del parlamento?

— La materia attualmente è in discussione al Parlamento italiano. Ci sono due risoluzioni presentate alla Camera, una dal Movimento 5 Stelle e l'altra da Sinistra Italiana, che chiedono espressamente la sospensione dell'invio di bombe all'Arabia Saudita. Le risoluzioni sono una risposta alla richiesta di numerose associazioni e reti, fra cui Amnesty International e Rete per il Disarmo, che fin dall'inizio dell'intervento militare hanno chiesto di sospendere l'invio di sistemi militari all'Arabia Saudita e di sostenere la richiesta dell'Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite per un'indagine internazionale indipendente su tutte le parti in conflitto in Yemen. Una richiesta sostenuta dall'Olanda, non sulla quale l'Italia non si è ancora pronunciata.

— L'Italia continua quindi a fornire armi all'Arabia Saudita, giusto?

— Sì. Va comunque detto che l'Italia non è il maggiore Paese esportatore di sistemi militari all'Arabia Saudita. Il presidente Trump ha parlato di un contratto da 100 miliardi di dollari di forniture di armamenti all'Arabia Saudita. Ma anche riguardo a queste forniture i Paesi europei avrebbero un ruolo importante perché molti dei sistemi militari che vengono inviati all'Arabia Saudita hanno delle componenti prodotte da aziende europee.

— Secondo lei cambierà qualcosa se entrerà in vigore l'embargo? Verranno mai sanzionati i Paesi che vendono armi all'Arabia Saudita?

— Le esportazioni di sistemi militari sono autorizzate dai singoli Stati. Questa risoluzione del Parlamento europeo, come le precedenti, ha un fortissimo valore perché chiede all'Alto Rappresentante di attivarsi e, contemporaneamente, pone un'indicazione precisa ai governi degli Stati membri per attivarsi per l'embargo. È perciò la massima espressione possibile per un parlamento democratico verso gli Stati membri. La questione quindi adesso è a capo dei singoli Paesi membri: alcuni hanno sospeso le forniture, altri continuano per questa strada.

Le norme internazionali e quelle dell'Unione europea non prevedono sanzioni nei confronti di chi violasse il Trattato internazionale sull'esportazione di armi o anche la posizione comune dell'Unione europea. Questa è una grossa mancanza, non è un caso se questo avviene: vi è stata una grossa pressione degli stessi Stati per fare in modo che non ci fossero sanzioni. L'unico organo competente a livello internazionale attualmente in grado di definire delle sanzioni è il Consiglio di Sicurezza dell'ONU. A livello europeo è il Consiglio dell'Unione europea. Esisterebbe però un'altra via.

— Cioè?

-In caso di embargo per quanto riguarda l'Arabia Saudita qualora un Paese violasse questo embargo, un altro Paese membro potrebbe essere legittimato a non inviargli armi. Ad esempio, se il Regno Unito violasse un possibile embargo sulle armi all'Arabia Saudita, l'Italia potrebbe non fornire più armi al Regno Unito. Questo servirebbe a spezzare un circolo vizioso. Ricordiamoci però che le lobby e le grandissime industrie di armamenti fanno pressione perché non ci siano forme sanzionatorie per chi viola l'embargo.

FONTE Tatiana Santi su

https://it.sputniknews.com/opinioni/201709155023958-opini...

16/09/2017

Orco partigiano, bambina fascista

L’OCCHIO SULL’INFERNO
Non è una favola. È una storia vera. Parla di Orchi trasformati in eroi e di una bambina trasformata in vittima sacrificale di bestie feroci.

L’ orrore era rimasto impresso sul suo viso, una maschera di sangue, con un occhio bluastro tumefatto e l’altro spalancato sull’inferno”.

Così racconta Stelvio Muraldo, l’uomo che notò il corpo della piccola Giuseppina Ghersi tra il cumulo di cadaveri abbandonati davanti al cimitero di Zinola poco fuori Savona, in quei giorni di Aprile del 1945; macabro regalo lasciato alla storia del nostro Paese da giustizieri partigiani, eroici campioni di atrocità impunite.

Erano terribili le condizioni in cui l’ avevano ridotta (…) avevano infierito in maniera brutale su di lei, senza riuscire a cancellare la sua giovane età‘”.

Perché Giuseppina Ghersi aveva 13 anni quando il 25 Aprile fu prelevata insieme ai genitori, gestori di un banco di frutta e verdura al mercato di San Michele, e portata nel campo di concentramento di Legino; uno dei luoghi degli orrori messi in piedi dai partigiani comunisti finita la guerra, ma che non troverete raccontati su nessun libro di scuola; luoghi dove si consumarono crudeltà, eccidi, torture, esecuzioni di massa, come in quello di Mignagola vicino Treviso, un luna park del sadismo per quelli della Brigata Garibaldi.

A Legino la famiglia Ghersi conobbe un volto inaspettato della democrazia che stava arrivando: madre e figlia seviziate e stuprate dai “Liberatori” davanti agli occhi del padre affinché confessasse dove nascondeva denaro e gioielli che pensavano possedesse. Perché c’era una parte dell’antifascismo di quei tempi che aveva un più saldo convincimento ideale associandosi al banditismo.

Poi la famiglia Ghersi venne divisa: papà e mamma portati nel carcere di S. Agostino (nonostante il comando partigiano avesse dichiarato cha a loro carico “non era emerso nulla”), mentre la piccola Giuseppina trattenuta nel campo, dove venne uccisa qualche giorno dopo, con un colpo di pistola alla testa; forse perché non potevano rimanere aperti gli occhi che avevano visto un aspetto dei Liberatori che non doveva essere raccontato.

La tragedia della famiglia Ghersi continuò negli anni successivi con persecuzioni, violenze, povertà tanto che i genitori furono costretti a lasciare Savona e a mendicare in giro per l’Italia.

Quella di Giuseppina Ghersi è una delle innumerevoli storie di violenze e abusi che si consumarono in quel periodo storico terribile che fu la Guerra civile italiana. Dall’una e dall’altra parte. Violenze che non risparmiarono bambini e adolescenti, figli di fascisti o comunisti o semplicemente inciampati in un destino più cattivo della loro innocenza.
Ma a differenza di altri, Giuseppina fa parte di quei morti che non sono mai morti perché non sono mai esistiti.
Persino Wikipedia rifiuta di ospitare la sua storia; troppo complicato ammettere che la Resistenza non fu quell’ovattato racconto eroico su cui si è costruita la grande menzogna italiana e l’ordine morale costruito dai vincitori.

download

L’ORCO PARTIGIANO
La storia della piccola Ghersi torna alla ribalta oggi che il comune di Noli ha deciso di dedicarle una targa scatenando le reazioni violente degli antifascisti del nuovo millennio che di nuovo non hanno nulla.

Il Segretario provinciale dell’Anpi, l’Associazione Nazionale Partigiani, è sdegnato, scandalizzato, offeso: “Giuseppina Ghersi era una fascista. Protesteremo col Comune di Noli e con la prefettura”.
L’Anpi di Savona rilascia un comunicato più articolato per giustificare l’ingiustificabile: “La pietà per una giovane vita violata e stroncata non allontana la sua responsabilità per la scelta di schierarsi ed operare con accanimento a fianco degli aguzzini fascisti e nazisti”.

Sembra che parlino di un gerarca del regime o di un fucilatore; invece parlano di una ragazzina di 13 anni violentata, seviziata da belve feroci che solo l’indecenza morale può evitare di condannare.

Nei giorni in cui il Paese assiste ad un crescendo di violenze sulle donne, questi vecchi arnesi di un antifascismo militante pagato con i soldi nostri, manifestano una impietosa capacità di disprezzare il corpo e la dignità di una ragazzina.
Non una sola parola contro gli Orchi che hanno violato quella giovane, anzi quasi una giustificazione: “lei era una spia!”, tuona un esponente politico della sinistra ligure.

Ma è possibile parlare di “responsabilità per essersi schierata con accanimento” per una bambina di 13 anni? A 13 anni non sei una fascista; a 13 anni non sei neppure comunista. A 13 anni sei solo una bambina che segue la vita e che la vita insegue anche nel turbine della storia, della guerra, dell’orrore.

Ci vorrà una giornata intera perché la Segreteria Nazionale dell’Anpi definisca “terribile e ingiustificabile” ciò che fu fatto a Giuseppina, aggiungendo con ipocrisia pelosa di “aver sempre condannato gli atti di vendetta e violenza perpetrati all’indomani della Liberazione”; cosa non vera, avendoli per decenni sempre negati e nascosti.

ABDULLAH E GIUSEPPINA
13 anni aveva anche Abdullah, il bambino siriano (o forse palestinese) ucciso e poi decapitato in Siria dai ribelli jihadisti anti-Assad un anno fa, non prima di averlo seviziato e aver immortalato la sua paura attorno al ghigno dei suoi massacratori; anche loro, per l’Occidente, erano i “Liberatori”, anche loro si ergevano a combattenti per la libertà; anche per loro il bambino siriano era una spia. Anche loro sono degli Orchi.

La verità è che molti di quelli che combatterono il fascismo erano peggio dei fascisti. Così come i “Ribelli moderati siriani”, sono spesso il volto dell’orrore islamista.

La Resistenza fu tante cose insieme: fu eroismo ma anche infame vigliaccheria, idealismo ma anche criminalità; fu desiderio di libertà ma anche volontà di imporre più cruente dittature.

Roger Scruton, uno dei più lucidi pensatori del nostro tempo, ha scritto che “il primo obiettivo di ogni totalitarismo è annientare la memoria”.
Ecco perché quelli dell’Anpi che vogliono negare il ricordo di Giuseppina non hanno nulla a che fare con la democrazia.
Ecco perché, una nazione che riannoda i fili di una storia sotterrata e nascosta, fa un dono alla propria libertà.

FONTE: Giampaolo Rossi su www.ilgiornale.it


12/09/2017

L'Arabia Saudita s'installa in Spagna

La lezione degli attentati di Barcellona e Cambrils sembra non sia stato molto utile per una parte della politica spagnola. Il radicalismo in Spagna esiste, c’è un problema di cellule jihadiste estremamente radicate, e c’è soprattutto un tema oscuro e fondamentale legato a chi finanzia i centri culturali islamici da cui si irradia l’estremismo islamico che conduce molti ragazzi a imbracciare le armi – qualsiasi arma – per convertirsi in jihadisti. In molti, in Spagna e non solo, hanno puntato il dito contro le monarchie del Golfo Persico, in particolare quella araba e qatariota. È noto che Riad e Doha utilizzino da sempre il binomio dei petroldollari e dell’islamismo per sviluppare la propria politica estera, ed è altrettanto noto che investano miliardi di dollari nell’esportazione del wahabismo e nel finanziamento di centri islamici in Europa, sia costruendo moschee, sia inviando imam allevati e indottrinati in Arabia e in Qatar. Un gioco pericoloso che, in Europa, comincia a mietere vittime. Vittime che non sono solo gli innocenti uccisi dagli attentati, ma anche chi cade nella trappola di questi fanatici che lucrano su un disagio sociale.

Purtroppo, c’è chi le lezioni non le impara mai. L’ultimo caso di scuola è quello che arriva proprio dalla Spagna appena ferita dalla mattanza del Las Ramblas, e lo rivela il quotidiano El Confidencial. L’Arabia Saudita sta, infatti, ultimando i dettagli per la costruzione di un’altra gigantesca moschea in territorio spagnolo dopo quella di Madrid, questa volta a Las Palmas de Gran Canaria. Il Centro Culturale Islamico di Madrid, ente che fa capo a Riad e che gestisce l’enorme moschea M-30 della capitale spagnola, ha completato la stesura del progetto per la moschea di Las Palmas de Gran Canaria su un terreno ceduto dall’amministrazione comunale guidata da Partito Socialista in giunta con Podemos. Adesso manca soltanto qualche documento da dare all’amministrazione comunale e soprattutto che la Lega del Mondo Islamico, il braccio di Riad per espandere la sua visione dell’Islam al di fuori dell’Arabia, liberi i fondi necessari per avviare i lavori.

 

Il tempio sarà costruito su un terreno municipale di circa 2.300 metri quadrati alla periferia di Las Palmas, e avrà anche un ristorante, sale sportive e culturali e persino un obitorio. Le associazioni civiche della zona avevano presentato delle proteste ufficiali al comune per sollecitare l’attenzione del sindaco sui rischi per la sicurezza e per l’eccessiva grandezza della struttura, ma l’amministrazione ha messo a tacere ogni dubbio. L’unica condizione da rispettare è che il progetto architettonico della nuova moschea si adatti alle normative urbanistiche. Il consigliere di Podemos Javier Doreste non ha posto alcun problema al fatto che un ente dall’Arabia Saudita abbia assunto il costo della costruzione del tempio e della sua futura direzione spirituale, tanto che lo stesso consigliere ha consegnato di fronte ai giornalisti i documenti del terreno al direttore della moschea di Madrid nonché rappresentante della Lega, Abdullah bin Saud in Arabia el Gudaian.

Il problema però è che mentre l’amministrazione di sinistra consegna le chiavi dell’islam delle Canarie all’Arabia Saudita, allo stesso tempo evita di ascoltare la voce dell’antiterrorismo spagnolo, che da tempo esprime preoccupazione per l’avanzamento dell’islamismo radicale in Spagna soprattutto grazie a questi progetti sauditi. Da un punto vista formale, e anche pubblicamente, la moschea M-30 di Madrid e tutti gli  altri centri islamici controllati dalla Lega islamica mondiale, come quelli di Malaga e Fuengirola (Andalusia), hanno adottato un approccio più “moderato”, per scrollarsi di dosso la pressione da parte delle autorità spagnole e dei media e cercare di raggiungere i musulmani che abbracciano correnti meno conservatrici, e che rappresentano la maggioranza dei musulmani nel territorio nazionale. Ma il fatto è che, dietro la forma, c’è poi la sostanza. E questa sostanza è composta di imam direttamente finanziati dall’Arabia Saudita e che promuovono il wahabismo, che è una dottrina totalmente contraria ai valori della società spagnola e la cui messa in atto si pone spesso in aperto contrasto con le leggi nazionali. E in ogni parte del mondo, Europa compresa, si è palesato in maniera cristallina il collegamento fra un certo tipo di islam reazionario e la crescita del radicalismo islamico come minaccia per la sicurezza dei cittadini.

 

Sarebbe poi interessante comprendere come questa scelta di Podemos di appoggiare la cessione di terreni ai sauditi si possa sposare con la linea politica di un partito che ha addirittura protestato con la monarchia spagnola dopo gli attentati di Barcellona perché la riteneva complice di Casa Saud con accordi economici ed energetici. Il segretario del partito, Pablo Iglesias, ha spesso denunciato con manifestazioni di piazza e virulenti discorsi in parlamento il fatto che grandi aziende spagnole e la stessa Casa Real intrattenessero rapporti con cui avevano venduto la Spagna e “offeso buona parte della cittadinanza”. Curioso che adesso siano proprio i consiglieri di Podemos a diventare maggiori alleati di Riad nella costruzione del secondo centro islamico più grande della Spagna.

FONTE www.ilgiornale.it

Vous avez dit islam modéré?

C’est le magazine Réformés (n° 9, septembre 2017) qui nous en fait le récit le plus idyllique: dès cet automne, l’Université de Genève propose une «formation continue destinée aux imams». L’article, rédigé dans une belle langue de bois anesthésique, précise que l’initiative répond à une sollicitation de la communauté albanophone locale, nous promet «une approche historico-critique de l’islam», et sous-entend, comme il se doit, qu’elle représente une garantie de modération et de respect des «valeurs démocratiques».

Tout va donc pour le mieux dans le meilleur des mondes possibles. Pour autant qu’on ne se pose pas de questions. Et c’est justement ce que l’article nous dissuade de faire: poser des questions. Avaler la pilule, la faire avaler plus loin et ne se préoccuper de rien.

Confiance ou complaisance?

En tout premier lieu, l’article omet de rappeler ce fait essentiel que la formation des imams en Europe n’est pas une idée neuve, ni une locale, ni une initiative venant «de chez nous», mais un vieux projet des Frères musulmans, le courant incarné par Tariq Tamadan, notamment via le Conseil européen de la fatwa, qui depuis des décennies «encourage des initiatives de formation d’imams locaux».

Au contraire, pour bien nous endormir, on commence par faire parler des musulmans partisans d’un islam libéral — mais sans nous dire ce qu’est cet islam. Dans la région d’origine des pétitionnaires, c’est plutôt le radicalisme pro-Daech qui gagne du terrain, comme en témoigne le livre de Saïda Keller-Messahli.

N’importe: «Des rapports de confiance se sont établis», assure le délégué genevois à l’intégration. Aurait-on eu besoin de le préciser s’il s’était agi d’un partenariat avec des juifs, des bouddhistes ou des chrétiens orthodoxes?

Hani Ramadan, prof de lycée

Mais puisqu’on y est, on se dit que des rapports de méfiance seraient peut-être plus indiqués en pareille affaire, surtout à Genève. Souvenons-nous: les rapports de confiance n’allaient-ils pas de soi entre l’Etat de Genève et frère Hani (l’autre Ramadan) le jour où il fut engagé comme professeur du secondaire (lycée) ? N’est-ce pas justement à cause de cet excès de confiance que les bureaucrates se sont avisés si tardivement de l’incompatibilité entre son idéologie et son travail dans une école laïque? Quoi qu’il en soit, le fondamentaliste avocat de la lapidation des femmes se pourvut en justice et fit vivre à la cité de Calvin un coûteux et interminable cauchemar judiciaire avant d’être enfin limogé. Puis de revenir par la petite porte, après s’être fait expulser de France pour menaces à l’ordre public, afin d’expliquer aux bons Suisses les horreurs de l’islamophobie.

Vous vous croyez dans une pantalonnade à la Mr. Bean? Détrompez-vous! La jobardise des élites suisses est sans limite.

Avec un zeste de méfiance et de bon sens, Genève aurait pu s’épargner de verser un million d’indemnités diverses à cet obscurantiste retors et à ses œuvres. Lequel obscurantiste, accessoirement, officiait déjà comme imam à la mosquée des Eaux-Vives en violation flagrante du principe de séparation de l’Eglise et de l’Etat…

Le recyclage d’un plagiaire

Mais rassurez-vous! C’est le «responsable académique du projet» qui vous l’ordonne. François Dermange, professeur d’éthique à la Faculté de théologie protestante de l’Université de Genève, ne craint qu’une chose: sa propre population «qui a peur et connaît mal l’islam», car «du côté des musulmans, la voix qu’on entend le plus est celle d’un islam politique». La solution? «Si on ne veut pas laisser la parole uniquement à ces courants, il faut se donner les moyens de promouvoir d’autres voies».

Lesquelles, monsieur le professeur? Pouvez-vous nous citer l’exemple d’une voie de l’islam acceptable par une majorité de musulmans qui ne soit pas politique? Qui ne réclame pas la soumission de la société à ses normes? Les wahhabites? Les Frères musulmans? En dehors de ces deux courants qui ont fait main basse sur l’islam en Suisse [1], voyez-vous un autre débouché professionnel possible pour vos imams? Peut-être chez les ahmadis de Zurich? Oups! Ils sont interdits de pèlerinage à la Mecque comme apostats, notamment parce que trop modérés.

« Vrai » et « faux » islam

Mais si nous avons peur, nous les ignares, c’est que nous ne comprenons pas bien le véritable islam, tant il a été occulté par le faux islam: «il est vrai aussi qu’historiquement les courants libéraux ont été balayés par des courants plus populaires». Les pauvres! Au moment même où ils allaient nous rassurer, voilà qu’ils se sont fait décapiter! Au fait, le wahhabisme est-il un courant «populaire», ou une construction de clercs d’émirs visant, justement, à tenir en laisse la population, M. le Professeur? A moins qu’on le confonde avec le salafisme des Frères, ce mouvement qui sous prétexte d’ouverture à la modernité prêche une régression sexiste, violente et autoritaire?

Voilà, de la part d’un professeur de l’Université, un résumé bien peu scientifique. Mais tout de même plus crédible que l’idée selon laquelle «à peu près toutes les sciences ainsi que la philosophie nous ont été transmises par l’islam».

Cette théorie fait l’objet de vifs débats dans la communauté des historiens, notamment depuis la publication de la thèse de Sylvain Gouguenheim. Or notre professeur d’éthique donne sa caution académique à un aveuglement délibéré du public en faveur de l’islam. Pour montrer une telle assurance, il faut tout de même effacer de l’histoire l’existence de l’Empire romain d’Orient jusqu’à la chute de Byzance en 1453, avec ses bibliothèques et ses savants et leurs relations continues avec les foyers de la Renaissance italienne.

Former des imams dans une fac chrétienne

On s’attendait à plus de loyauté de la part d’un théologien genevois à l’égard de sa propre culture. Mais pardon: «Notre rôle à l’université n’est pas du tout de plaider pour le christianisme». Un théologien qui plaiderait pour le christianisme? Du dernier ringard! Le bon peuple genevois qui finance cette faculté appréciera.

Nous voilà donc bien renseignés sur les connaissances et l’impartialité du responsable académique chargé par M. le conseiller d’Etat Maudet d’introduire la formation des imams dans une faculté jusqu’ici chrétienne. Ne nous manque plus qu’un tout petit détail que ni le journal Réformés ni les grands médias n’ont mentionné: c’est que M. le professeur Dermange est un plagiaire avéré, mais étrangement maintenu à son poste malgré le scandale et l’insurrection de ses assistants et étudiants après la découverte de son pillage de Paul Ricoeur. Une performance, de la part d’un professeur d’éthique! «Une maladresse de ma part», avait-il déclaré à l’époque, même pas capable de reconnaître ses dons de faussaire.

Autant dire que nous avons là le profil idéal pour le poste. «Un traître à notre goût», aurait dit John Le Carré.

Il faudrait imposer des principes simples

Mais passons. Faisons confiance, puisqu’on ne nous laisse pas le choix. Installons-nous confortablement dans notre fauteuil et essayons d’imaginer comment la Faculté de théologie va faire pour former les cadres d’un islam «réformé» (puisqu’on est à Genève).

Va-t-elle leur imposer un code de conduite conforme à nos lois et coutumes démocratiques? Par exemple, leur faire prêter serment sur un décalogue de ce genre:

  1. La loi divine à la loi humaine tu subordonneras.
  2. L’égalité des sexes tu garantiras.
  3. L’abjuration de l’islam tu autoriseras.
  4. L’histoire de l’islam en historien tu étudieras.
  5. Les mécréants à la géhenne point ne voueras.
  6. Au nom de ta foi point ne tueras.
  7. A César ce qui est à César tu rendras.
  8. Aux infidèles point ne dissimuleras.
  9. La lapidation tu prohiberas.
  10. Au sacrifice animal tu renonceras.

Cela paraît totalement inimaginable? Ce sont pourtant des exigences minimales en société démocratique, et c’est bien là le hic! Si la puissante Eglise catholique a pu retirer de sa liturgie la damnation des juifs, pourquoi l’université de Genève ne pourrait-elle pas intégrer une semblable décence dans son programme?

Qui va payer?

Mais ne rêvons pas. Avec un féal aussi obséquieux et moralement compromis à la tête du projet, on imagine mal l’Université imposer une quelconque exigence extra-islamique à ses futurs imams. Ils pourront, s’ils en ont envie, promettre d’être sages, ou alors pratiquer une duplicité totale: dans tous les cas, la décision dépendra d’eux et d’eux seuls, et non de ceux qui auront payé leur formation.

Au fait: qui va la payer? Autorisera-t-on l’apport de capitaux privés, d’où qu’ils viennent, ou le contribuable suisse assumera-t-il seul les frais de laboratoire?

De plus: qui va les former? Des théologiens protestants ou des coreligionnaires? Eux-même formés par qui? Autorisera-t-on leur formation à distance (p. 48 du programme UNIGE)? On n’en sait encore rien, mais si oui, l’Etat de Genève paiera-t-il aussi la formation d’imams en terre d’islam?

Islamisme et études de genre: sacré cocktail

On évoque l’interdisciplinarité: la faculté prévoit-elle, par exemple, d’organiser des «ponts académiques» avec la chaire d’études de genre hébergée par la même université? Des séminaires interdisciplinaires entre la communauté LGBT et les futurs responsables religieux musulmans? Voire des stages croisés? Une lesbienne s’essayant au métier d’imam, un barbu découvrant son ambiguïté sexuelle? Ou encore mieux: des travaux pratiques avec des apostats de l’islam ayant proclamé leur athéisme ou leur conversion?

De magnifiques échanges en perspective. Mais qui évidemment n’auront jamais lieu. Selon toute vraisemblance, la belle initiative de la Faculté genevoise reviendra tout simplement à légitimer la subversion de l’ordre démocratique.

Le conseiller d’Etat Pierre Maudet, actuellement candidat au Conseil fédéral, qui a voulu ce programme et qui a mis à sa tête un universitaire compromis — et d’autant plus malléable —, a-t-il entièrement confiance dans le mécanisme qu’il a mis en marche? Si oui, quel bénéfice personnel en attend-t-il? Sinon, quelles parades a-t-il prévues si l’expérience devait tourner au vinaigre, notamment dans ses aspects sécuritaires dont il se préoccupe tant?

Les protestants en quête de nouveaux maîtres?

Quant à nos amis théologiens protestants, aussi surannés dans l’Europe du XXIe siècle que des professeurs de marxisme à la fin de l’URSS, on dirait qu’ils se cherchent de nouveaux dogmes. Ils ont commencé par se trouver de nouveaux maîtres.

On navigue ici entre le Monsieur Bonhomme de Max Frisch tendant aux incendiaires l’allumette qui mettra le feu (annoncé) à sa propre maison — et l’inoubliable marigot académique du Soumission de Houellebecq. A cette différence près que le ralliement des universitaires d’Houellebecq à l’islam suit la prise du pouvoir politique par les musulmans. Alors qu’à Genève, elle va à sa rencontre.

C’est donc ça, l’esprit d’ouverture!

SOURCE: www.causeur.fr

04/09/2017

Diritti umani, diritti di chi?

I funzionari di polizia si scambiano freneticamente informazioni. Ma i conti non tornano. Tre dei quattro violentatori di Rimini erano aggrappati all'Italia come giocolieri sulla rete

Fra escamotage e applicazioni soft di una legge già confusa e buonista.

Il papà dei due fratelli marocchini entra in Italia negli anni Novanta e si stabilisce in Veneto: il primo figlio, oggi in carcere, nasce a Montebelluna. L'uomo è irregolare ma una sanatoria del '95 gli offre la chance che cercava. Solo che il capofamiglia inciampa nella legge: denunce, arresti, precedenti che saltano fuori. Il permesso viene revocato e lui dovrebbe essere espulso, ma gioca la carta giusta; deve accudire i bambini che intanto si moltiplicano: due, tre, quattro. «Di solito - spiegano alla questura di Rimini - è la madre che invoca quella norma, ma questa volta è il padre a farsi avanti, gettando cosi l'ancora sul territorio italiano».

E la mamma? Lei non si è attaccata alla legge, ma non ce n'è bisogno: nessuno metterebbe su un aereo per Casablanca una signora, abbandonando al loro destino i quattro marmocchi.

Gli agenti sono salomonici: «È irregolare, almeno dal 2002, ma anche no».

Siamo dentro un labirinto che riporta tutti alla casella d'arrivo: l'Italia.

La realtà è che, per una ragione o per l'altra, le espulsioni dei maghrebini si fermano, mentre la giustizia e le istituzioni inseguono i pezzi sparsi di questa famiglia. Le denunce e gli arresti del padre; l'ammonimento della madre per stalking; i guai dei figli, più volte segnalati dalle forze dell'ordine e, come se non bastasse, la scuola frequentata dal secondogenito invia pacchi di segnalazioni per bullismo. «In teoria - notano gli agenti che si destreggiano fra leggi oscure come la selva di Dante - ci sarebbero buone ragioni per rispedire tutti in Marocco ma dopo tanti anni sono ancora qua e il motivo fondamentale è la presenza dei figli minori».

Che a loro volta, al compimento del diciottesimo anno, potrebbero chiedere la cittadinanza italiana, anche senza lo scivolo dello ius soli. Ma in questo caso, i guai dei genitori ricadono sui figli e quelli dei figli sui genitori: difficile, con la famiglia decimata dai provvedimenti giudiziari, immaginare che alla fine i ragazzi possano diventare italiani.

Più facile pensare che, espiata la pena se e quando verrà erogata, i fratelli vengano rispediti in Africa insieme al padre e alla madre. Ma è solo un'ipotesi di scuola. Fra commi scritti, modificati e interpretati non si sa quante volte nessuno è in grado di orientare la bussola verso il rimpatrio. È il colabrodo Italia.

Un paese senza griglie e filtri, come dimostra anche la vicenda del congolese, il capobranco arrestato per ultimo, ieri mattina. Arriva a Lampedusa su un barcone nel 2015. Dunque, è un clandestino ma come tanti chiede asilo politico. La Commissione territoriale gli risponde picche, ma poi gli accorda la protezione umanitaria che è un surrogato dell'asilo. Il giovane si sistema a Cagli, non lontano da Urbino. Conosce i due fratelli e il nigeriano, l'unico regolare perché la sua identità sta sulla carta di soggiorno della madre. Si forma la gang. Figlia di questo pastrocchio burocratico-politico.

E in questo pasticcio il limbo dei richiedenti asilo è la zona grigia per eccellenza. Se un profugo incassa un doppio no, no all'asilo e no alla protezione umanitaria, può sempre fare ricorso. In quel caso ha diritto a rimanere in Italia fino all'esaurimento del procedimento che può arrivare fino in Cassazione. Solo nella provincia di Rimini i richiedenti asilo sono 2 mila. Tutti in stand by. E i clandestini bloccati nell'ultimo anno sono stati 206, ma quelli accompagnati in una struttura sorvegliata o rimandati in patria solo 55. Uno su quattro. Gli altri sono liberi.

Fonte www.ilgiornale.it

02/09/2017

Ventimiglia: ancora una provocazione davanti ai nostri cimiteri

http://www.ilgiornale.it/video/cronache/islamici-pregano-...

Manifestamente i seguaci del pedofilo assassino continuano la provocazione sul suolo di un Paese che si é battuto per secoli per la propria liberta' e contro questo tipo di barbarie

Le autorità, si dice cosi', lasciano correre, anzi accondiscendono

Volevano  fare la stessa cosa anche davanti al Colosseo!!!

Come sulla copertina della loro immonda rivista RUMIYAH  sulla quale Roma e' designata come il prossimo obiettivo strategico in vista della SOLUZIONE FINALE

Roma che e' piu' che una semplice citta', ma il simbolo di tutto l'Occidente cristiano e umanistico da distruggere

Che nessuno si faccia illusioni: tutto cio' non condurra' alla "coabitazione pacifica delle culture", come si suole dire, ma alla creazione delle circostanze per una futura guerra civile che sara' dura e sanguinosa, come in Yugoslavia, Libano, India, Siria, Irak, Libia, Repubblica Centrafricana, Sudan......

Dovunque arriva l'Islam, la civiltà regredisce e la violenza s'installa, per sempre!

Dovunque e comunque da 14 secoli!!

Che nessuno dica di non sapere

Nessuna differenza fra Islam e Islamismo, il secondo non puo' esistere senza il primo

Questo stesso Blog attivo da 11 anni ricorda ripetutamente il pericolo mortale che la tolleranza verso queste pratiche immonde rappresenta per il nostro modello di civiltà

Molto prima degli attentati in Europa e poco dopo quelli delle Twin Towers

E' un problema di vita o di morte!

 

Capture.JPG