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28/05/2006

Fidarsi del carnefice

di  Magdi Allam

«Pace in cambio dei territori». La formula su cui si è basata la diplomazia internazionale per risolvere il conflitto arabo-israeliano, a partire dalla risoluzione 242 dell'Onu del 1967, oggi si rivela del tutto deleteria e velleitaria. Perché coincidendo la pace con il riconoscimento del diritto di Israele all'esistenza, di fatto si è accreditato il principio della relatività del diritto alla vita altrui, sottintendendo che esso non è né assoluto né definitivo. E perché si è immaginato che la Realpolitik avrebbe fatto prevalere il pragmatismo sul massimalismo di quanti, per fanatismo religioso o nazionalista, credono che Israele debba essere annientato.

Dopo una settimana di full immersion in Israele, sono arrivato al convincimento che l'errore più grave della sua storia sia stato l'aver acconsentito e il continuare a permettere che il suo diritto all'esistenza venga messo all'asta. Promuovendo una sorta di suk dei disvalori, dove i dittatori arabi mercanteggiano sul diritto alla vita altrui chiedendo e, talvolta ottenendo, una contropartita di natura economica, politica e militare. Finendo per incassare, nel migliore dei casi, un riconoscimento formale e de facto, dettato dall'opportunismo politico, che si traduce in una pace fredda, fragile e reversibile. Ben lontano dal riconoscimento sostanziale e strategico, basato sulla condivisione della legittimità storica, etica e politica della presenza dello Stato ebraico. Tanto è vero che le forze religiose, politiche e terroristiche pregiudizialmente ostili a Israele si sono consolidate dopo il ritiro israeliano dai territori occupati in Egitto, Giordania, Libano e Gaza. Perché l'oggetto vero del contendere non sono i territori arabi occupati in guerre preventive e reattive, ma il territorio israeliano, il diritto stesso di Israele a esistere.

Ebbene, sono rimasto sgomento nel constatare che a tutt'oggi c'è una parte della società israeliana che apparentemente si rifiuta di guardare in faccia la realtà, che si illude di dovere e di potere pervenire a un accordo con il proprio carnefice. Basta considerare i titoli del quotidiano Haaretz, diffuso in lingua inglese come inserto dell'Herald Tribune. Il 23 maggio scorso sulla prima pagina dell'Herald, in alto, si legge questo richiamo dal messaggio categorico: «Haniyeh a Haaretz: La pace all'interno dei confini del 1967». Si tratta di un'intervista esclusiva al primo ministro palestinese, dirigente di Hamas. Il titolo di apertura del quotidiano israeliano conferma quella che sembrerebbe essere una svolta storica: «Haniyeh dice a Haaretz: il ritiro ai confini del 1967 porterà alla pace». Ma già nel sommario a fianco di una foto del premier sorridente e poi nel testo dell'intervista, Haniyeh dice tutt'altro: «Se Israele si ritira ai confini del 1967, la pace prevarrà e noi ci atterremo a un cessate il fuoco ( hudna) per molti anni».

Come è possibile che Haniyeh proponga un «cessate il fuoco» e Haaretz lo traduca nei suoi titoli come "pace"? Possibile che non sappiano che Hamas e persino Bin Laden offrono ai loro nemici la hudna, rifacendosi al precedente della tregua di Hudaibiya stipulata da Maometto con i nemici meccani nel febbraio del 628 quando era in una posizione di inferiorità, violandola nel gennaio del 630, una volta consolidate le proprie forze, con l'occupazione della Mecca? Ecco perché, calandoci nel contesto islamico estremista, la hudna è esattamente la negazione della pace, è l'altra faccia della medaglia della guerra ad oltranza, conferma l'ostilità preconcetta nei confronti del diritto all' esistenza di Israele. Mi domando ancora: come mai Haaretz non ha fatto mezza domanda a Haniyeh sul suo rifiuto di riconoscere Israele, sulla sua legittimazione del terrorismo suicida che massacra gli israeliani, sulla sua violazione dei trattati internazionali sottoscritti dall'Autorità nazionale e dal Parlamento palestinese?

Eppure non pochi israeliani, quando ho espresso loro il mio convincimento che Hamas non riconoscerà mai Israele perché lo considererebbe un sacrilegio e una negazione della loro fede islamica, hanno reagito con rassegnazione: «Sono stati liberamente eletti. Con chi altri potremmo trattare?». Ebbene la mia risposta netta è stata: oggi più che mai, in un mondo in cui il terrorismo islamico ha violato e oltraggiato il valore della vita di tutti, non si può e non si deve trattare sul diritto all'esistenza di Israele. Hamas non può e non deve essere legittimato come partner negoziale dal momento che disconosce il diritto alla vita del suo interlocutore. Aveva ragione Yitzhak Shamir quando sostenne il principio «Pace in cambio della pace». Perché si può trattare sui termini della pace, non sul principio della pace. Aveva ragione Yitzhah Rabin quando a Oslo nel 1993 vincolò ogni cessione territoriale al radicamento della cultura della vita tra i palestinesi. Scontrandosi con il doppiogiochismo di Arafat, fino a quando nel 2000 si tolse la maschera preferendo la guerra alla pace. Perché Arafat al pari di Hamas, anche se in modo più subdolo, per pace intendeva la tregua armata. E oggi, dopo il ritiro unilaterale da Gaza e il probabile prossimo ritiro unilaterale dalla Cisgiordania, Israele conferma che il problema di fondo non sono i territori occupati, bensì il suo diritto ad esistere. Eppure troppi nel mondo, perfino in Israele, sembrano ignorarlo.

 

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