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29/06/2006

La taquiya islamica palestinese

La crisi attuale tra lo Stato d'Israele e i palestinesi — innescata da mesi di attacchi missilistici di terroristi stanziati a Gaza contro città e villaggi israeliani e, recentemente, dall'ardito attacco dello scorso weekend da parte di una squadra terrorista a una postazione di confine dell'esercito israeliano in territorio israeliano — fa giungere molti nodi al pettine.
L'estate scorsa, quando l'ex primo ministro Ariel Sharon ordinò all'esercito e ai coloni di lasciare Gaza, cedendo ai palestinesi il controllo di quel minuscolo territorio densamente popolato, sperava che si potesse arrivare a una certa tranquillità lungo la frontiera tra Israele e Gaza, e che questo potesse essere il primo passo di un più ampio ritiro da gran parte della Cisgiordania che portasse alla pace e alla creazione di uno Stato palestinese arabo indipendente accanto a Israele.
I mesi passati hanno confermato gli allarmi e i timori espressi in quel frangente dalla destra israeliana — che il ritiro desse l'opportunità ai gruppi terroristi e di guerriglia palestinesi di lanciare attacchi verso Israele con relativa impunità. Da allora, infatti, i primitivi missili Qassam fatti in casa continuano a piovere sulla città di Sderot, sulle periferie di Ashkelon e su vari kibbutz al confine. Il ritiro è stato evidentemente interpretato dai palestinesi come un segno di debolezza da parte di Israele e gli occasionali attacchi missilistici di rappresaglia o prevenzione da parte di Israele contro auto e case di terroristi a Gaza — che hanno a volte provocato la morte di innocenti, oltre che dei colpevoli — non sono riusciti a por termine alla violenza.

Ma il ritiro da Gaza ha avuto un altro risultato. La fondamentalista Hamas, che aveva guidato la lotta palestinese (la seconda Intifada) contro Israele negli ultimi cinque anni, è stata mandata al potere dall'elettorato palestinese con il voto dello scorso gennaio. Gli israeliani di tendenza pacifista e gli occidentali hanno sperato che questo avrebbe indotto Hamas a una maggiore moderazione, nonostante il suo atto costitutivo del 1988 proclami la volontà di distruggere Israele attraverso la jihad
(guerra santa), assumendo a giustificazione considerazioni palesemente antisemite, tratte in gran parte (ed esplicitamente) dai «Protocolli dei Savi di Sion».

Ma quel che succede è che Hamas si comporta come Yasser Arafat, il noto leader palestinese scomparso, che, come un ventriloquo, parlava contemporaneamente con due voci, una rivolta ai liberali europei e israeliani, prodiga di rassicurazioni e intenzioni pacifiche, un' altra rivolta ai terroristi, cui ordinava o permetteva di continuare gli attacchi contro Israele. In modo simile Hamas ha annunciato di accettare la sospensione delle ostilità, allo stesso tempo permettendo ad altre fazioni, come la Jihad islamica, di continuare gli attacchi e inviando i suoi militanti ad aiutarli.

L'assalto condotto da Hamas nel weekend alla postazione dell'esercito israeliano di Kerem Shalom (in ebraico «vigneto della pace») potrebbe indicare l'emergere nei ranghi di Hamas di fazioni dissidenti (alcuni biasimano la leadership «esterna» di Hamas, capeggiata da Khalid Mashal, di stanza a Damasco) — o potrebbe essere semplicemente un altro esempio del multiforme modus operandi di questa ambigua organizzazione.

Anche l'intesa di principio di ieri con il partito Fatah su una nuova versione dell'«accordo sui prigionieri» è segnata da doppiezza. Questa mossa improvvisa, dopo settimane di tergiversazioni e cavilli, molto probabilmente è stata sollecitata dal desiderio di evitare l'attacco contro Gaza minacciato da Israele. Ma l'accordo stesso è assai ambiguo, se non decisamente insincero. Stabilisce che i palestinesi si impegneranno nella costruzione di uno stato in Cisgiordania e nella striscia di Gaza lungo i confini del 1967 e che verranno frenati gli attacchi contro Israele. Ma plaude alla resistenza all'«occupazione», che nell'interpretazione di Hamas si riferisce alla presenza ebraica in ogni parte della Palestina/Israele, non solo in Cisgiordania e a Gaza. Il documento non riconosce esplicitamente l'esistenza o il diritto a esistere di Israele e insiste sul «diritto di ritorno» di tutti i rifugiati palestinesi del 1948 e del 1967 — un ritorno di massa che, se messo in atto, significherebbe la distruzione di Israele (i palestinesi sostengono che vi siano 5 milioni di rifugiati, l'attuale popolazione di Israele è composta da 5 milioni di ebrei e 1,3 milioni di arabi).

È troppo presto per valutare i possibili effetti dell'attuale incursione delle forze israeliane a Gaza. Quel che è chiaro è che i due-tre giorni concessi da Israele alla diplomazia — cioè alla mediazione europea — per ottenere la liberazione del soldato israeliano catturato non hanno portato a nulla (dimostrando ancora una volta l'impotenza europea e la sua irrilevanza nel conflitto arabo-israeliano). Il primo ministro Ehud Olmert spera, anche se probabilmente non ci scommette, che la pressione militare, che nei prossimi giorni verrà gradualmente aumentata, possa raggiungere lo scopo — o almeno permetta a Israele di far pagare un alto prezzo ai palestinesi per le loro continue aggressioni contro Israele.
Benny Morris
29 giugno 2006

 

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