Vale il discorso di prima sull’informazione. In Italia si preferisce parlare, o, meglio, chiacchierare, piuttosto che studiare e pensare. Non sorprende che anche i temi più drammatici siano trattati superficialmente. Spesso vengono ridotti a carne da macello per le risse televisive. E’ un riflesso antropologico quello di snobbare i prodotti intellettuali, culturali, politici del mondo anglosassone. Un complesso di superiorità che nasconde una forma di provincialismo.
No, non sarei così drastico. Direi, piuttosto, che la sua voce non riuscirebbe a raggiungere l’opinione pubblica. E questo è un grave problema di assenza di democrazia.
I motivi sono molti. Ne citerò uno. In Italia non c’è una sinistra liberale, o liberalsocialista, blairiana per intenderci, se non in piccole sacche di resistenza. La sinistra in Italia è dominata dall’asse catto-comunista: ex-Dc, ex-Pci e sinistra orgogliosamente comunista. La terza componente ancora oggi rifiuta la democrazia liberale. Le altre due componenti non hanno ancora fatto pace con il liberalismo, il vero vincitore del XX secolo. Hanno una concezione etica dello Stato, la chiamerei clerico-solidarista. Gli ex Pci, in particolare, continuano a guardare alla politica estera con le lenti dell’anticapitalismo e del terzomondismo. Ai loro occhi l’espansione della democrazia equivale ancora all’imperialismo americano. E non si scordano di essere stati anti-imperialisti, anche se pronti a chiudere un occhio nel caso in cui l’imperialismo fosse quello russo. Inoltre, la logica di potere dei Ds è rimasta intatta: esercitare il potere con realismo, ma alimentare la propria base di consenso con i miti e i pregiudizi di sempre, rinunciando, in questi sedici anni trascorsi dalla caduta del Muro, alla sfida culturale che avrebbe reso moderna, democratica e liberale, anche la nostra sinistra.
Non dimentichiamoci che la guerra al terrorismo, alla fine, sarà vinta solo se prevarremo sul piano politico-ideologico. E’ essenziale che i popoli del Medio Oriente vedano il sistema di vita democratico come il più conveniente, capace di garantire al tempo stesso benessere, progresso e libertà. Hard power e soft power. Non m’illudo: anche il soft power suscita la reazione violenta dei fondamentalisti, che va battuta con le armi, ma è lo strumento più efficace per conquistare i cuori e le menti delle masse musulmane. Il confronto è ideologico. Dunque, non si gioca solo sui campi di battaglia o nelle operazioni di intelligence, ma anche nelle «Arab Street», con l’informazione, l’industria culturale, il processo di secolarizzazione dell’Islam, la creazione di una classe media, il sostegno aperto, pubblico, alle opposizioni democratiche. Insomma, dobbiamo utilizzare il nostro potente arsenale di armi di attrazione di massa, quello che alla fine permise al mondo libero di trionfare sul nazifascismo e sul comunismo. Mi pare che nulla in questo senso sia stato fatto dall’Europa e poco, ancora troppo poco, anche dall’amministrazione Bush, che mostra una preoccupante mancanza di sensibilità per queste politiche di “ingerenza”.
Sull’atomica iraniana la penso come Ledeen, Kagan e Ottolenghi: c'è qualcosa che gli ayatollah temono ancor più dell'uso della forza. Il timore che il mondo libero eserciti tutta la sua forza d'attrazione di libertà e democrazia. Teheran si serve di agenti sobillatori e dei gruppi sciiti più radicali e violenti per far fallire il processo democratico iracheno, ma più che la guerra in sé, o la presenza di truppe occidentali, teme di ritrovarsi un paese confinante, di milioni di sciiti, retto da istituzioni democratiche, che possa esercitare un'attrazione irresistibile verso gli stessi iraniani. I paesi democratici dovrebbero cominciare a rivolgersi direttamente al popolo iraniano, a sostenere l'opposizione al regime, perché, come spiega Ottolenghi, la questione iraniana non è il nucleare in sé, ma la rivoluzione democratica, il rovesciamento della mullahcrazia: «Ci sono due conti alla rovescia in corso a Teheran: uno, molto veloce, è quello della bomba; l'altro, molto lento, è quello della rivoluzione democratica. Il dilemma è semplice: quali politiche adottare per rallentare il primo e accelerare il secondo, di modo che l'Iran arrivi al rovesciamento del suo regime, prima che il regime arrivi a produrre la bomba?». Robert Kagan è dello stesso avviso: «La nostra giustificata fissazione di impedire all'Iran di dotarsi della bomba ci ha in qualche modo impedito di perseguire un più fondamentale obiettivo: il cambiamento politico in Iran... Dobbiamo cominciare a sostenere il cambiamento democratico e liberale per il popolo iraniano». Nessuno vuole un Iran con la bomba, ma dipende anche da chi è al potere. Non ci spaventano Francia e Gran Bretagna, India o Israele, perché siamo portati a fidarci di governi democratici. Se l'Iran fosse guidato anche da «un imperfetto governo democratico» saremmo molto meno preoccupati. Potrebbe decidere di smantellare i programmi volontariamente, come Ucraina o Sud Africa, ma anche se non volesse, sarebbe «meno paranoico per la sua sicurezza». Per quanti è davvero intollerabile un Iran nucleare, ma al contempo vogliono fare di tutto per evitare un'altra guerra, non resta che investire tutte le energie, le diplomazie, l'intelligence e le risorse economiche, nella rivoluzione democratica. Strategia che ha il vantaggio di essere compatibile con gli sforzi diplomatici per rallentare i piani nucleari.
L’idea della Comunità delle democrazie, istituzione moribonda ma già esistente, fu di Bill Clinton. Da subito, in Italia, furono i radicali a crederci. Poi ci fu l’11 settembre. Pannella lanciò l’idea, rimasta tuttavia vaga, degli Stati Uniti d’Europa e d’America, per porre la democrazia, da promuovere all’estero e da monitorare a casa nostra, al centro delle politiche dei due continenti. Ma la proposta più convincente, di cui però non si sente parlare da un bel po’, rimane a mio avviso quella – avanzata da James M. Lindsay e Ivo H. Daalder, entrambi esponenti di punta della Brookings Institution, think tank di area democratica clintoniana – di una Alleanza delle Democrazie, una vera e propria alleanza, politica e militare, destinata a sostituire sia l’Onu sia la Nato. Dopo i primi segnali di interesse da parte dell’amministrazione Usa per una Lega delle Democrazie, il silenzio. Nessuno sviluppo, neanche per un altro progetto, che doveva camminare in parallelo, quello dei Caucus democratici all’interno dell’Onu. L’Europa in maniera cronica, ma anche gli Stati Uniti, sembrano disarmati di politiche.