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22/07/2006

Hezbollah, terrorismo, traffico di droga, contrabbando..nel nome di allah il misericordioso

Gli Hezbollah, da buoni libanesi, hanno il senso del commercio. E con l'obiettivo di aiutare la «resistenza armata» trafficano in tutto. Partite di cocaina in Sudamerica, gemme in Africa, sigarette negli Stati Uniti, false griffe in Europa. Ma il prodotto che non ti aspetteresti è il Viagra: pillole taroccate, probabilmente pericolose per chi le assume. La storia del Viagra non è una bugia per «sporcare» l'immagine dura e pura del partito di Dio libanese. E' vera ed è emersa nei mesi scorsi durante una indagine federale negli Usa. Un gruppo di libanesi, da tempo residenti tra Carolina del Nord e Michigan, avevano messo in piedi una redditizia attività di contrabbando destinata — in parte — ad alimentare il budget dell'Hezbollah. Fonti diplomatiche stimano in 250 milioni di dollari il bilancio ufficiale del movimento, un tesoro garantito da cospicui finanziamenti iraniani. Almeno 10 milioni di dollari al mese. In realtà c'è il sospetto che il giro d'affari abbia dimensioni planetarie. Un piccolo impero economico su cui non tramonta mai il sole.
Il primo pilastro dell'apparato è nella famosa Triplice frontiera, la zona racchiusa dai confini di Paraguay, Brasile e Argentina. Nella cittadina paraguayana di Ciudad del Este, l'Hezbollah gestisce scuole, centri islamici e commerci. Un finanziere d'assalto brasiliano di origini libanesi ha inviato almeno 50 milioni di dollari alla guerriglia ottenendo una lettera di ringraziamento da parte del segretario Hassan Nasrallah. A Ciudad vendono smerciati prodotti contraffatti — borse, profumi, elettronica, cd musicali —, riciclano denaro, raccolgono soldi nella folta comunità araba (almeno 20 mila persone). I negozi dai nomi arabi diventano una buona copertura e una base per militanti in trasferta. Esiste — secondo gli 007 argentini — un sistema di comunicazione via Internet che lega la colonia paraguayana al quartier generale in Libano. Un accogliente santuario dove sciiti e sunniti vanno d'accordo in nome del guadagno. Infatti elementi pro-iraniani convivono con estremisti egiziani della Jamaa e della palestinese Hamas, anche loro impegnati nella raccolta della zakat (l'offerta).
Il modello ha funzionato e l'Hezbollah lo ha riprodotto. Attivisti libanesi hanno aperto imprese di import/export all'Isola Margaritas in Venezuela, in Cile, in Ecuador, a Panama, in Guayana. I luoghi preferiti sono le cittadine a cavallo delle frontiere, dove poliziotti distratti e un intenso passaggio favoriscono gli imbrogli. Nei paesi della droga emissari Hezbollah trattano droga con i cartelli locali. La polizia ecuadoriana ha smantellato di recente una organizzazione che guadagnava un milione di dollari a spedizione e destinava il 70% ai militanti. Oltre il Rio Grande, negli stati centrali degli Usa, l'Hezbollah è più discreto. Oltre al Viagra, traffica in latte in polvere e sigarette, quest'ultime comprate in una riserva indiana. Una rete che operava tra Detroit e Charlotte ha frodato il fisco per 20 milioni di dollari. Quanti ne sono finiti all'Hezbollah? L'Fbi non ha una risposta, però ha accertato un legame operativo con Imad Mugnyeh, a lungo responsabile dell'apparato clandestino e oggi numero tre nella lista dei super-ricercati. Le cellule americane, oltre a commerciare, hanno il compito di acquistare materiale paramilitare: visori notturni, apparati radio, abbigliamento, telefoni satellitari, sistemi Gps. I mediatori legati all'Hezbollah si sono fatti un nome in altri due settori.
Il recupero crediti e le pietre preziose. Una grande società del tabacco britannica avrebbe chiesto aiuto ai militanti per recuperare un grosso credito in Iran. Operazione pagata con un ricco assegno per la intermediazione. Non meno aggressiva l'attività in Africa. Alcuni tra i più spregiudicati mercanti di gemme sono di origine libanese e appartengono alla comunità sciita. C'è il fondato sospetto che promuovono la raccolta di «tasse rivoluzionarie» in favore dell'Hezbollah e versino loro stessi un obolo alla causa. I libanesi finiti sotto accusa si difendono sostenendo che si tratta di normali attività economiche, perfettamente legali. E altri aggiungono che i fondi inviati a Beirut sono spesi nel vasto apparato sociale composto da asili, mense, scuole, ambulatori gestito dall'Hezbollah. Provare che i dollari finiscono all'ala combattente non sempre è facile. Ma il sospetto è legittimo.
Guido Olimpio
22 luglio 2006

21/07/2006

Diritti a geometria variabile

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Al di là delle differenti opinioni sulla nuova crisi in Medio Oriente, emerge che per gran parte del mondo il diritto di Israele all’esistenza è una variabile dipendente, non un principio inviolabile delle relazioni internazionali. Anche il nostro Occidente legittima pienamente non soltanto degli Stati che non hanno relazioni diplomatiche con Israele, ma si dicono pronti ad averle qualora sorgesse uno Stato palestinese, ma legittima anche quegli Stati e gruppi che hanno scatenato una guerra del terrore e predicano l’annientamento di Israele.
È una riflessione che s’impone quando da parte dei governi, dei parlamenti nazionali e dell’Unione Europea si deplora l’uso «eccessivo» della forza o la reazione «sproporzionata » di Israele, limitandosi a mettere a confronto un certo numero di israeliani uccisi contro un numero maggiore di vittime palestinesi e libanesi, l’impiego di aerei e lanciamissili contro kamikaze e razzi. Senza contestualizzare gli eventi bellici, citando en passant la volontà di distruggere Israele quasi si trattasse di uno dei tanti elementi della crisi. Finendo per mettere sullo stesso piano l’attentato terroristico sferrato da chi disconosce il diritto di Israele all’esistenza e la rappresaglia militare di chi difende il proprio diritto alla vita. E nella condanna indistinta della violenza e nell’appello generico alla pace, si finisce di fatto per legittimare il terrorismo. Occultandone la natura aggressiva, giustificandolo come «reazione» ai bombardamenti, nobilitandolo come «resistenza » all’occupazione. In questo clima saturo di disinformazione la realtà viene mistificata, i pregiudizi religiosi e ideologici nei confronti di Israele riesplodono con modalità e graduazioni diverse.
Ebbene, una corretta informazione fa emergere come l’inizio della crisi sia stato l’attentato terroristico compiuto il 25 giugno scorso da un commando di Hamas, partito da Gaza non più occupata, che ha ucciso due soldati israeliani e rapito un terzo. Un’iniziativa che ha voluto sabotare la speranza della ripresa del negoziato, riaffiorata dopo il vertice tra il presidente palestinese Abu Mazen e il premier israeliano Olmert a Petra il 22 giugno, sotto gli auspici del re giordano Abdallah II. Un copione già visto quando nell’ottobre del 1993 Hamas scatenò per la prima volta i suoi kamikaze sugli autobus a Gerusalemme e Tel Aviv per sabotare il nascente processo di pace siglato il 13 settembre 1993 a Camp David tra Arafat e Rabin. Successivamente alla rappresaglia militare israeliana a Gaza, è scattata la seconda fase della crisi. L’8 luglio i terroristi dell’Hezbollah sono penetrati in territorio israeliano, partendo dal Libano meridionale che non è più occupato dal 2000, uccidendo otto soldati e sequestrandone due. In questo caso si è trattato di un terrorismo su procura per scatenare un conflitto in Libano al fine di alleggerire la pressione della comunità internazionale nei confronti dell’Iran sulla questione del nucleare. Un copione simile a quello di Saddam, quando il 3 giugno 1982 commissionò a Abu Nidal l’uccisione dell’ambasciatore israeliano a Londra, Shlomo Argov, determinando la decisione israeliana di invadere il Libano il 6 giugno, al fine di distogliere l’attenzione dal massacro, con i gas chimici, di migliaia di soldati iraniani a un passo dalla presa di Bassora.
La legittimazione di Hamas, Hezbollah, Assad e Ahmadinejad viene accreditata sulla base del fatto che sono stati liberamente eletti dai rispettivi popoli. Ebbene, oggi è l’Occidente per primo, dal momento che è impegnato nella diffusione della democrazia nel mondo, a dover rispondere a un quesito fondamentale: può essere considerato democratico chi nega il diritto all’esistenza di Israele e pratica il terrorismo per distruggerlo? Ed è l’Occidente per primo, a circa 60 anni dall’Olocausto degli ebrei frutto del regime nazista andato anch’esso al potere democraticamente, a doversi pronunciare in modo inequivocabile sulla legittimità delle forze islamiche «democratiche» che stanno promuovendo una guerra volta a cancellare la patria degli ebrei dalla carta geografica. Ecco perché dovrebbe essere proprio l’Occidente a prendere l’iniziativa di accreditare sul piano del diritto internazionale che il diritto di Israele all’esistenza è un principio inalienabile e un valore incontrovertibile che sostanzia la democrazia. Che, pertanto, predicare e operare per la distruzione di Israele è un crimine contro l’umanità e una negazione della democrazia, che non può prescindere dal riconoscimento del diritto alla vita e alla libertà di tutti.
Magdi Allam
19 luglio 2006

20/07/2006

La France arme les islamiques

PARIS (Reuters) - L'Arabie saoudite est sur le point de commander 76 canons Caesar à Giat Industries, un contrat qui représenterait "plusieurs centaines millions d'euros", lit-on sur le site internet du quotidien Les Echos.

L'annonce pourrait intervenir à la suite d'un déjeuner ce jeudi ce moment entre Jacques Chirac et le prince Sultan bin Abdulaziz al Saoud, vice-Premier ministre et ministre saoudien de la Défense.

Si le contrat est effectivement signé, il s'agira du troisième décroché pour ce canon de 155 mm autotracté, après les 77 achetés par l'armée françaises et les six commandés par la Thaïlande.

REUTERS 20/07/06

14:10 | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : mpf

La peur doit changer de camp

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Le déclenchement de la sixième guerre israélo-arabe (après celles de 1948, 1956, 1967, 1973 et 1982) donne lieu à des prises de parti émotionnelles qui dégagent davantage de chaleur que de lumière. Nous voudrions ici donner une série d'analyses, toutes à l'exception de deux d'entre elles, provenant de sources écrites et connues, afin de favoriser un jugement qui restera libre, mais informé. C'est au début des années 1980 que le Hezbollah, bras armé du nouveau pouvoir islamiste iranien, invente l'attentat-suicide, puis la guérilla de harcèlement, face aux occupants français et américains à Beyrouth, puis face à l'armée israélienne.
Le retrait unilatéral des Israéliens du Liban en 2000 dans le cadre de la négociation que l'on espérait globale et finale avec l'Autorité palestinienne, est interprété par les forces islamistes de la région comme une défaite israélienne. Ce modèle du Hezbollah est discuté dans les rangs palestiniens à la veille de la négociation de Camp David de l'été 2000, et elle aboutit à la décision de Yasser Arafat de se retirer des négociations de paix avec Israël et d'y substituer la stratégie du harcèlement chère au Hezbollah. Ce tournant s'accompagne de la marginalisation des «colombes» palestiniennes au profit d'une nouvelle organisation clandestine du Fatah, le Tanzim, et de son bras armé, les brigades al-Aqsa. La nouvelle orientation s'accompagne d'une pleine réconciliation avec le Hamas qui dispose d'un double soutien saoudien et irano-syrien.
L'affaire du cargo Karin B nous renseigne sur la coalition que l'intifada des mosquées avait mise en place : ce bateau affrété par les services secrets iraniens devait livrer des armes au Hamas et aux brigades al-Aqsa à Gaza, puis finir sa distribution au Liban, au profit du Hezbollah. Le point le plus étonnant de l'affaire concernait l'Égypte : le cargo devait débarquer sa cargaison dans le canal de Suez et la confier à de petites embarcations qui tenteraient de forcer la surveillance israélienne. Une telle opération, avortée par l'interception du cargo par des commandos israéliens, impliquait l'Autorité palestinienne et l'État iranien, sous la bienveillante complicité des services secrets égyptiens. Peut-on transférer ce modèle sur la situation présente ? Deux facteurs ont changé : l'Égypte, qui craint comme la peste la contagion des élections palestiniennes favorables aux islamistes dans sa propre vie politique, a tenté de remettre en selle les modérés palestiniens d'Abou Mazen et de provoquer une réorientation modérée du gouvernement du Hamas.
Au moment où cette manoeuvre allait réussir, les extrémistes du Hamas ont organisé l'attaque contre Israël de manière à faire rebondir la crise. Seconde différence, moins évidente mais plus fondamentale encore dans l'équation : dans le débat interne qui traverse les élites iraniennes, les modérés du président Khatami, alliés ici au pragmatisme de l'ancien président Rafsandajani, avaient encore le dessus, à telle enseigne qu'ils demandèrent une commission d'enquêtes parlementaires au Majlis de Téhéran pour désavouer ceux qui avaient monté le coup du Karin B. Aujourd'hui, les ultras ont repris le dessus et avouent le soutien qu'ils apportent à la tendance militaire du Hamas. Les déclarations antisémites du président Ahmadinejad lui ont d'ailleurs valu les félicitations du chef égyptien de la confrérie des Frères musulmans. C'est l'orientation imposée par Ahmadinejad qui a imposé un renversement à 180 degrés de la politique iranienne : voici un an, le chef du Hezbollah, Hassan Nas rallah, saluait le gouvernement Jaafari à Bagdad, protégé par les Américains, refusait à l'aile dure de l'armée syrienne le concours de ses milices pour se maintenir au Liban ; mieux même, il acceptait de participer au gouvernement d'unité nationale que Rafic Hariri était en train de mettre en place.
Avec le tournant iranien, le Hezbollah change d'approche : il revient à la lutte armée sous forme de harcèlement d'Israël, il coordonne son offensive à celle du Hamas commandé depuis Damas par Khaled Meshaal (chef du Hamas en Syrie) en étroite corrélation avec cette même aile dure du régime syrien, à laquelle Nasrallah avait, voici un an, claqué la porte. Tirons donc les conclusions de cette première phase de la guerre : la main de Téhéran est partout dans cette crise qui est donc indissociable du double débat qui traverse la haute hiérarchie chiite, passage en force vers le nucléaire ou solidarité accrue avec les chiites d'Irak au risque d'une entente tacite avec Washington.

La résolution d'Ahmadinejad ne démontre pas à ce jour sa maîtrise de la stratégie ultime de Téhéran. Mais un échec militaire du Hezbollah signifierait non seulement la première défaite stratégique de ce mouvement depuis l'évacuation du Liban-Sud en l'an 2000, mais aussi un sérieux renfort pour l'axe pragmatique et modéré qui passe par le gouvernement national libanais, les réformateurs syriens groupés autour du président Bachar el-Assad et, enfin, de tous les opposants intérieurs iraniens. Ajoutons enfin qu'à Moscou, ceux qui souhaitent réimplanter l'influence russe dans la région ont partie liée à Bachar el-Assad et à Rafsandjani, ce qui explique la nouvelle mansuétude de Poutine à l'égard d'Israël. La peur serait-elle en train de changer de camp ?

Alexandre Adler

17/07/2006

Galuzeau et la politique anti-israëlienne française

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Comme on vient de l'apprendre, Galuzeau le Bellâtre (De Villepin) va se rendre à Beyrouth sur demande de Ben Chirak, pour exprimer la "solidarité de la France au peuple libanais"

Bien dit non?

Et les civils israëliens qui reçoivent des roquettes à l'aveugle sur la tête n'ont-il pas droit à la "solidarité"?

Alors qu'une offensive nazislamique sans précedents depuis la guerre du Kippour est declenchée contre Israël, la France ne rate pas une occasion pour se ranger du coté des agresseurs.

Cette offensive a été bien planifiée, ralliant Hezbollah, Hamas, Fatah, Iran, Sirie et bien d'autres fideles de l'égorgeur de la Mecque

Bien sûr, la population civile libanaise n'a souvent (mais pas toujours) rien à voir avec ces bandits mahométains mais comment pretendre que l'on accepte de se faire tirer plusieurs centaines de roquettes par jour sur la tête sans réagir?

Que fait-il cet Etat bidon Libanais, symbole de l'échec de toute possibilité de cohabitation pacifique entre islam et christianisme, dominé par des bandes terroristes au solde des nazillons iraniens et siriens?

Et les pions du G8 qui demandent à Israël de faire preuve de retenue!

Continuons à croîre que l'islam s'affronte avec des compromis, nos enfants en ferons les frais.

Alors, soutien total à Israël dans sa lutte pour la survie, seul et contre tous (ou presque).

Quant aux médias français qui s'apitoient sur le sort des civils, qu' Israël ne vise pas et qui servent de bouclier au Hezbollah, est-ce que ils se sont apitoiés sur les sort des civils du Darfour ou sur ceux de la Somalie?

Ceux la on s'en fout, il faut pas en parler ...c'est l'islam qui domine et massacre! Normal.

Terminons avec un constat: depuis le debut de la controffensive israëlienne, pas de chiffres sur les terroristes du hezbollah tombés au combat. Normal, ils sont comptés et ils representent la quasi totalité de ceux que l'on appelle "les civils".

Voilà comment on desinforme l'occident!

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15/07/2006

Israele, diritto alla difesa

Diritto alla difesa
di
Magdi Allam
E’ guerra, guerra vera, ormai. Il Medio Oriente rischia un nuovo, grande incendio. Ieri la battaglia che è divampata nel Sud del Libano ha raggiunto Beirut e colpito anche la città israeliana di Haifa che non aveva più conosciuto attacchi dall’esterno fin dal 1991, quando erano stati i missili Scud a ferirla durante la prima guerra del Golfo. Il governo libanese prende le distanze dall’Hezbollah e un suo ministro accusa la Siria. Il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen minaccia le dimissioni in segno di protesta contro Hamas. L’allarme sale in tutto il mondo. E l’Italia? Da che parte sta? E’ difficile trovare il bandolo, nonostante gli sforzi della nostra diplomazia e gli apprezzabili tentativi di cercare una soluzione da parte del ministro degli Esteri Massimo D’Alema.
Legittimamente partono da Roma appelli alla moderazione, ma insistere sulla «reazione sproporzionata e pericolosa di Israele», come ha fatto ieri lo stesso D’Alema, rischia di nascondere un elemento centrale della crisi, e cioè il diritto di Israele a difendersi. Sono le stesse autorità arabe direttamente colpite dalla rappresaglia militare israeliana a rilevare che all’origine di questa spirale di violenza c’è un’iniziativa terroristica sponsorizzata dall’Iran e dalla Siria, sferrata da territori, Gaza e il Libano meridionale, che non erano occupati. Non possiamo dimenticarlo. Così come non possiamo far finta che non esista una guerra globalizzata del terrorismo islamico, a dispetto dell’evidenza del legame operativo tra Hamas, Hezbollah, Siria, Iran e della loro collusione ideologica con i gruppi e le cellule imparentate ad Al Qaeda in tutto il mondo, uniti dall’odio nei confronti di Israele, dell’America e della civiltà occidentale. La scelta dell’equivicinanza non potrà comunque condurci a mettere sullo stesso piano Israele e Hamas, Israele e l’Hezbollah, Stati Uniti e Iran.
Nella sua visita in Italia, Kofi Annan ha chiarito che per l’Onu la lotta al terrorismo non è una fandonia, che è assolutamente vitale che il nostro Paese mantenga le sue forze in Afghanistan e che anche il ritiro dall’Iraq dovrà avvenire «al momento opportuno, per evitare che la situazione esploda». I fans dell’Onu in seno al governo ne tengano conto: o danno ascolto ad Annan oppure sarebbe meglio che smettessero di strumentalizzare le Nazioni Unite. La guerra esplosa in Medio Oriente potrebbe rivelarsi ben più seria e di più lunga durata, coinvolgendo direttamente la Siria e l’Iran. E’ possibile che Israele decida di regolare i conti non tanto con i kamikaze o con i guerriglieri che lanciano i katiusha, bensì con i burattinai dei terroristi che pianificano la distruzione dello Stato ebraico. Trattandosi di una partita in cui non avrebbe l’opzione della rivincita, Israele è costretta a difendere la sua esistenza sino in fondo. Se l’Italia ha veramente a cuore la causa della pace in Medio Oriente, il diritto dei palestinesi a uno Stato indipendente e l’interesse dei libanesi alle sovranità e dignità nazionali, deve restare a fianco di Israele e svolgere sino in fondo il suo ruolo nella guerra al terrorismo internazionale.

La guerra dei mondi si fa strada

Ricordate qualche anno fa quando tutti i politici occidentali si misero a criticare la tesi di S. Huntington sullo shock delle civiltà fra islam e mondo occidentalizzato?

Era un modo per negare l'evidenza.

La guerra ce l'hanno dichiarata dal VI° secolo, al seguito delle dottrine del pedofilo della Mecca.

L'aumento della tensione fra Israele ed i suoi vicini nazislamici, cosi' come fra l'India ed il Pakistan lo conferma.

Certo, nessuno di noi l'ha voluta né la vuole questa guerra, ma la scelta é fra subire o reagire.

Ma un segno grave del cancro ideologico che pervade l'occidente, é la chiusura progressiva dei siti di resistenza anti-islamica da parte dei governi  al soldo dei petrodollari.

Diversi mesi é stato chiuso il magnifico sito di discussione islam-danger.com

Se cercate forum dei seguaci del pedofilo dove si critica la laicità, l'occidente e si predica l'antisemitismo, ne troverete sempre di piu', in tutta impunità.

LA LIBERTA' E' IN GRAVISSIMO PERICOLO!!!

Se sapete leggere il francese, questo libro é magnifico e premonitorio:

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11/07/2006

La magistratura italiana sceglie la "collaborazione" col nemico

Insieme alla vittoria ai Mondiali, o in alternativa come premio di consolazione, presto potremmo festeggiare il ritorno in Italia di Abu Omar. Con tante scuse ufficiali e un risarcimento di 10 milioni di euro per aver arbitrariamente interrotto la sua attività di predicatore d’odio e apologeta del terrore nella moschea di viale Jenner a Milano. Subito dopo, magari affidandosi all’assistenza del suo stesso avvocato Montasser Al Zayyat, con trascorsi in galera per la sua attività eversiva in Egitto, riaccoglieremo altri due militanti di spicco della Guerra santa islamica, Bouriqi Bouchta e Abdulqadir Fadlallah Mamour, allontanati con atti amministrativi.
Nel frattempo il corso della giustizia avrà accertato la responsabilità di un numero crescente di responsabili dei Servizi segreti, del ministero dell’Interno e della Difesa, di politici della passata e della presente coalizione governativa, di magistrati «non organici» e di giornalisti che hanno «collaborato» con le «spie». Il vertice dei nostri apparati di sicurezza sarà interamente rimosso e screditato, con gravi danni all’attività di contrasto del terrorismo e un ulteriore logoramento della fiducia della gente nelle istituzioni. Riflettiamoci bene prima di proseguire in questa guerra intestina che preannuncia un suicidio collettivo. Se l’applicazione formale e rigorosa della legge vigente anziché salvaguardare compromette pesantemente la sicurezza dei cittadini, che è la condicio sine qua non per poter godere di qualsiasi libertà, significa che o la legge è inadeguata o vi è un difetto nella sua applicazione. Personalmente ritengo che siano veri entrambi i casi.
L’inadeguatezza e il difetto risiedono principalmente nel fatto che l’attuale legislazione non recepisce integralmente la realtà e la specificità del terrorismo islamico globalizzato, in particolar modo la sua dimensione ideologica, spesso sommersa, che ha già trasformato anche l’Italia in una fabbrica di terroristi e aspiranti kamikaze. Ed è inevitabile che se non si contestualizza correttamente l’evento, l’elaborazione del legislatore, la valutazione del magistrato e l’azione dell’esecutivo risulteranno inficiate da un vizio di fondo. Il risultato sarà un insieme confuso che impone una navigazione a vista, subendo e reagendo agli eventi anziché prevedendo e realizzando delle scelte.
È un dato di fatto che all’interno dei nostri apparati di sicurezza si scontrano almeno due anime: la prima considera il terrorismo islamico come la principale minaccia alla sicurezza interna e internazionale; la seconda ritiene che si tratti di un’esagerazione, peggio ancora, di una strumentalizzazione della paura collettiva per fini di potere. Ebbene è quest’ultima che sta oggi prevalendo e sembra prossima a imporre la propria linea, con il conforto del governo di centrosinistra. Sul piano internazionale la svolta rilevante è stata la decisione di accelerare il definitivo ritiro dall’Iraq, sulla base del consenso contro la «guerra ingiusta», ignorando le ragioni della lotta al terrorismo invocate dalle autorità irachene e presenti nelle risoluzioni dell’Onu 1511 e 1546. E ora, a quanto pare, ci si avvia a regolare i conti con il «partito della guerra» all’interno dell’Italia.
In quest’ambito si sta rischiando di fare dei servizi segreti la valvola di sfogo dei mali della classe politica. L’aria che tira la si può desumere persino dalle due immagini in circolazione di Abu Omar. Nella prima compare sorridente, sbarbato, snello, in giacca e cravatta mentre legge un giornale. Nella seconda si vede un faccione gonfio, sguardo severo, corpo appesantito, barba lunga e la divisa «afghana » degli estremisti islamici, camicione e pantaloni bianchi larghi e informi. Ebbene, a seconda della tendenza a voler colpevolizzare il Sismi o Abu Omar, sulla stampa compare l’una o l’altra. Significativamente, con il Sismi nella bufera, viene più gettonata la foto di Abu Omar «buono». Ha ragione Sergio Romano quando ieri sul Corriere ha ricordato che se i servizi sono sospettati «delle peggiori malefatte » non possono svolgere il loro compito istituzionale. Ma a mio avviso non peccano di «eccessiva dipendenza dall’intelligence americana».
Casomai è vero l’opposto: ci vorrebbe molta e più proficua collaborazione con gli Stati Uniti, l’Europa e il resto del mondo. C’è una guerra in atto scatenata dal terrorismo e dall’estremismo islamico globalizzato. L’Italia deve decidere da che parte stare: mi auguro che non si schieri dalla parte di Abu Omar.
Magdi Allam
08 luglio 2006

Les fidèles mahométains encore et toujours

La capitale économique indienne a été frappée par sept attentats à la bombe qui ont visé des trains de voyageurs mardi, aux heures de pointes.

Une première explosion s’est produite à mardi soir, dans un train de banlieue près de Bombay. Six autres ont suivi. Des explosions qui semblent toutes avoir visé les transports ferroviaires de la capitale économique indienne et de sa banlieue, notamment les quartiers de Matunga, Khar, Santacruz, Jogeshwari, Borivali et Bhayendar.
«L'explosion était si puissante que nous avons pensé avoir été atteints par un coup de foudre. Le marché a tremblé», a confié un témoin.
Selon la police, il y aurait au moins 100 morts et de nombreux blessés. «Il y a eu trois explosions à Khar, Santa Cruz et Mahim», a précisé un responsable au QG de la police de la ville. Un autre responsable a indiqué qu'elles avaient eu lieu à bord de trains en circulation.
Réunion de crise
Le premier ministre indien a immédiatement convoqué une réunion de crise. Le 7 mars, un triple attentat avait été perpétré à Bénarès (nord), la plus importante ville sainte hindoue, faisant 23 morts. A New Delhi, un triple attentat avait fait 66 morts le 29 octobre 2005. Le Parlement fédéral avait été attaqué en décembre 2001. Quinze personnes étaient mortes.
Pour tous ces attentats, les autorités indiennes avaient montré du doigt des groupes islamistes basés au Pakistan et actifs au Cachemire indien, en proie à une insurrection islamiste depuis 1989.
Sept attentats à la bombe se sont produites mardi dans des trains de voyageurs rentrant chez eux après le travail à Bombay et le bilan est d'au moins 100 morts, a déclaré la police indienne, citée par la chaîne de télévision
www.figaro.fr

08/07/2006

La France à la recherche de son identité

L’ivresse « multicolore » de 1998 avait bercé les Français d’illusions : huit ans plus tard, le scepticisme règne.

ON NE CONSTRUIT PAS du patriotisme sur du football. » Dans l’engouement passager, Alain Finkielkraut traque l’illusion d’une nation. « Les supporters de tous les pays se conduisent de la même manière, dit-il, alors que le patriotisme, c’est l’exaltation des spécificités culturelles. » En 1998 déjà, il doutait des vertus unificatrices du black, blanc, beur, né de la victoire en Coupe du monde. Aujourd’hui, le philosophe maintient ses réserves : « Il ne faut pas confondre l’idenfication à une équipe de foot et l’adhésion à une culture, à une langue, à des valeurs. »
Et pourtant. « En 1998, on était content d’avoir une équipe de toutes les couleurs. C’était une belle image », se souvient David, 35 ans, consultant. Aussi douce que l’euphorie qui avait saisi le pays pour son premier titre mondial. « Tout était spontané. On avait l’impression qu’il n’y aurait plus de discriminations », ajoute Fatima, secrétaire. Puis, à l’automne 2001, quelques semaines après le 11 septembre, le fameux match France-Algérie au Stade de France, où une partie du public avait sifflé La Marseillaise puis envahi le terrain alors que les Bleus menaient au score, a provoqué une déchirure. « Black Blanc Beur n’a jamais dépassé le slogan. Dans la réalité, chacun vivait de son côté », analyse Ibrahim, livreur. Pis encore. « C’est un aveu d’échec », explique le sociologue Ahmed Boubekeur, en se référant à la marche des Beurs. « En 1998 : rien n’avait changé. Les hommes politiques découvraient la France métissée. »
Depuis, la crise identitaire et sociale s’est aggravée. « On sait bien que le foot ne change rien à nos vies », reconnaît Kamel, 30 ans, animateur à Courbevoie. Néanmoins « On est content de regarder tous dans la même direction, au moins pendant une semaine. »
« Zidane,Kabyle comme nous » Au Stade Charlety, mercredi dernier, des milliers de jeunes Blacks, Blancs, Beurs ont déferlé, vêtus de maillots bleus ou enroulés dans des drapeaux tricolores. Certains brandissaient leurs cartes d’identité pour crier « Allez la France ». Tous priaient pour la victoire. Mais quelques-uns disaient n’être venus que pour « Zidane, Kabyle comme nous », comme pour se justifier, tandis que des drapeaux algériens flottaient dans le stade, dont l’un dépassait par sa taille toutes les bannières tricolores. (Zidane, un kabyle symbole d'un peuple opprimé par la majorité arabe e qui reclame la reconnaissance de son identité. Zidane qui est un exemple d'integration en occident et de refus de l'"identité musulmane". NDR)
A cette présence algérienne affichée, s’ajoutaient les bandes de jeunes Noirs, particulièrement nombreux dans le stade et sur les Champs-Élysées. « On est content d’admirer des Noirs à la télé, et qu’ils soient applaudis, avançait Sammy. Ça nous change. » Ces athlètes, et notamment Lilian Thuram, « représentent des modèles positifs », estime Marc Cheb Sun, rédacteur en chef de Respect.Un exemple nécessaire à l’heure où « l’intégration des Maghrébins est en cours tandis que se profile celle des enfants d’Africains ». Pour lui, la glorification de sportifs reste néanmoins une « mystification » : « Il suffit de regarder l’Assemblée nationale où il n’y a pas un seul Noir ». Demain, tous les supporters ne seront pas de la fête. « On va pas embrasser des Français qui nous détestent le reste de l’année », peste Abdoulaye, 18 ans, les cheveux déteints à l’eau oxygénée, des carrés scintillant à chaque oreille.
A Lyon, la mairie a fini par retirer l’écran géant mercredi dernier, craignant les dérives, après qu’une bande eut enlevé un drapeau français devant l’hôtel de ville pour le remplacer par celui de l’Algérie. Dans la nuit de la victoire contre le Portugal, des bandes ont même dévalisé les automobilistes et sauté sur des voitures. « Les mêmes scènes que pendant les émeutes de novembre », raconte, amer, un Lyonnais qui croyait qu’une victoire des Bleus pouvait tout changer.
www.figaro.fr