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29/07/2016

Turchia Paese dell' Umanesimo Islamico

La Turchia ha appena annunciato l’apertura di un “cimitero dei traditori”, creato appositamente per ospitare i corpi dei golpisti morti il 15 luglio scorso.

 

Lo spazio, identificato nella zona orientale di Istanbul, nell’area posteriore nei pressi di un nuovo canile in costruzione, è stato prescelto una settimana dopo il fallito golpe. Il cimitero ospiterà “coloro che non meritano una degna sepoltura”.

Chiunque passerà davanti il cimitero – ha commentato il sindaco di Istanbul Kadir Topbas lunedì scorso, durante un discorso pubblico – maledirà quei corpi, impedendo loro di riposare in pace nelle loro tombe.

L’apertura del cimitero arriva in mezzo all’ennesimo giro di vite effettuato dal governo a seguito del fallito colpo di stato. Quasi 16.000 persone sono state arrestate: tra questi 10.000 militari.

I golpisti uccisi, in una nuova direttiva emessa dal Directorate of Religious Affairs, non riceveranno alcun rito funebre e non potranno essere oggetto di preghiere. Queste persone, precisano nella direttiva a cura del Direttorato Responsabile degli Affari Religiosi turchi, hanno ignorato la legge di un’intera nazione e non meritano alcuna preghiera.

Il cimitero dei traditori

Il cimitero è stato costruito in soli due giorni. Un cartello di metallo con su scritto “Cimitero dei Traditori” è stato collocato lunedì scorso. La prima salma ha raggiunto il sito poche ore dopo. Nessuna lapide, nessun nome. Si presume possa trattarsi del corpo di Mehmet Karabekir, un capitano di 34 anni e padre di due figli. La famiglia si sarebbe rifiutata di occuparsi della salma. Probabilmente questo è soltanto il primo cimitero dei traditori realizzato in Turchia.

FONTE www.ilgiornale.it

 

PS: Qui da noi si discute di cosa fare dei corpi degli assassini maomettani generatori di stragi

I benpensanti post sessantottini catto comunisti pensano che le salme vadano restituite alle famiglie (poverette) perché possano dargli degna sepoltura (snif snif)

In questo modo dimenticano che uno dei modi di lottare contro l'ideologia satanica maomettana é proprio di trasgredire i loro tabou

Non c'é da discutere: i terroristi vanno bruciati e le loro ceneri disperse senza stati d'animo nella rete fognaria, non fosse altro perché le loro sepolture maomettane non diventino luoghi di culto

Le loro famiglie vanno espulse nei loro Paesi di origine, perché uno dei tabou maomettani é che non bisogna produrre conseguenze spiacevoli alla propria famiglia perché Allah don't like that

Ricordatevi di quella merda di Djihadi John, che decapitava nella gioia coranica tutti quei poveri innocenti in Siria: da quando la sua identità é stata svelata e la sua famiglia messa sotto "protezione" dalla polizia inglese, Paese che li aveva accolti ed in cui risiedevano, é scomparso dagli schermi, fino al giorno in cui un drone britannico non l'ha rinviato dal suo Satana di Maometto da cui era venuto

Lo stesso discorso non puo' giustificarsi nel caso del regime islamo fascista genocidario negazionista mafioso del Sultano Erdogan, grande amico degli affaristi di Bruxelles e Strasburgo,  che vuole "dannare" tutti coloro che gli si oppongono, cosa che di per se stessa é già una qualità

28/07/2016

Una ideologia satanica chiamata Islam

Dopo il racconto di suor Danielle, arriva quello della moglie di uno dei feriti che ha assistito alla secena dell'orrore, ovvero quando padre Jacques è stato sgozzato dai due jihadisti in chiesa. "Quei due indemoniati ci hanno divisi, mio marito e padre Jacques sulle panche di sinistra, io e le tre suore su quelle di destra. “Non preoccupatevi, ha detto uno a noi donne, non vi faremo niente, ci servite vive come ostaggi”. Ho pensato: Dio mio, significa che non morirò subito e dovrò aspettare un po’ prima che mi uccidano. Avrò paura per tanto tempo. È stato allora che ho smesso di agitarmi e di gridare. Non volevo mi venisse un infarto", racconta al Corriere. Poi entra nel vivo del racconto e parla di quei momenti terribili. "Io e Guy siamo andati alla messa del mattino perché era il compleanno di mio marito: 87 anni. Volevamo ringraziare Dio d’essere arrivati sin qui assieme. La messa era quasi finita quando sono entrati dalla sacrestia quei due. Uno aveva una pistola, l’altro un coltello. “Siamo pronti a farci esplodere — ci hanno detto —. Siete tutti prigionieri”. La polizia mi ha detto che sia la cintura esplosiva sia la pistola erano finte, ma noi non potevamo saperlo. E poi che differenza avrebbe fatto? Eravamo due vecchi e quattro donne. Quei due erano ragazzi che saltavano di qua e di là come indemoniati. “Allah Akbar” gridavano. Ci hanno divisi, maschi da una parte e femmine dall’altra, quindi hanno cominciato a prendersela con padre Jacques". E ancora: "Quello con la pistola filmava l’altro che dall’altare diceva qualcosa in arabo. Una preghiera, una minaccia, chissà — continua Jeanine —. Padre Jacques continuava a dirgli di smetterla, di non mettersi nei guai, di non fare sciocchezze. Loro l’hanno preso dalla panca e gli hanno ordinato di inginocchiarsi. Padre Jacques ha resistito, voleva parlargli, non so, forse pensava di convincerli, ma quello col coltello gli ha dato il primo colpo di lama, dall’alto verso il basso, proprio qui, tra la clavicola e il collo. Padre Jacques è caduto all’indietro, con la faccia all’insù. Dio mio, lo vedo ancora. Aveva la testa ripiegata verso di noi e, sono sicura, ci guardava". "Padre Jacques ci guardava, immobile, con la tunica bianca che si impregnava di sangue, fino a che non è uscito sangue anche dalla bocca e allora se n’è andato. Quei pazzi l’hanno colpito ancora al corpo, una due, tre volte, non saprei. Così a terra, com’era. Hanno dovuto abbassarsi per accoltellarlo. E probabilmente era già morto". Poi l'incredibile mossa del marito della donna: "Dopo la prima volta, l’hanno colpito in almeno altri tre punti, per ucciderlo proprio come avevano fatto con Padre Jacques. Il mio Guy è caduto a terra immobile come morto. Solo dopo ho saputo che stava fingendo e che riusciva persino a premere con la mano su una ferita per ridurre l’emorragia".

FONTE: http://www.ilgiornale.it/news/mondo/rouen-moglie-ferito-si-finto-morto-1290299.html

I corpi dei due ESCREMENTI UMANI che hanno ucciso un povero vecchio indifeso e ferito gravemente un altro,nel nome di un Pedofilo assassino, meritano solo di essere bruciati e le loro ceneri date in pasto ai maiali

Che l'inferno li divori per l'eternità!!

25/07/2016

Algerie: Pays le plus raciste au Monde

L’Algérie serait bel et bien le pays le plus raciste du monde, elle arrive à la première place des résultats d’une enquête internationale menée par plusieurs organismes dont Open Borders for Refugees et Stop Dis Crime In Nations. Sur plus de 1248 personnes interrogées, plus de 75% d’individus ont avoué avoir des idées racistes voire très extrêmes.

L’étude menée par le franco-algérien Bilal Jihad, a provoqué un si gros tollé que l’étude n’a pas été publiée dans le pays concerné. L’Algérie est très différente des autres pays du monde du fait que la double nationalité y est interdite, que l’on n’y naît pas citoyen (à moins que la mère soit une citoyenne algérienne) et elle est aussi très célèbre pour les ventes records du célèbre pamphlet allemand Meint Kampf, dans les pays du Maghreb. La population de l’Algérie est composée de 99% d’Arabes et 1% d’Européens (selon les sources officielles), du fait que les individus de peau noire ne sont pas comptabilisés.

L’Algérie n’accueille aucun migrant (de la crise en Irak et en Syrie, NDLR) à cause du « risque d’infiltration Africaine », à savoir que 91% des Algériens Arabes* réclament l’expulsion immédiate des noirs du pays (qui ne représentent même pas 100,000 personnes). 83% des individus interrogés aimeraient interdire le Christianisme et 61% voudraient bannir le judaïsme.

Plus de la moitié est contre l’accueil de réfugiés, non pas à cause de la menace djihadiste mais bien à cause de l’origine ethnique des migrants. 95% des Algériens souhaiteraient interdire les visas aux immigrés Chinois. En dépit du fait que la Chine contribue d’une manière incroyable à l’essor pétrolier de l’Algérie, les algériens ne réalisent pas que la fortune de leur pays dépend désormais très largement de leurs exportations et de l’aide en provenance de l’orient.

L’Algérie est le pays qui possède le plus de crimes racistes routiers, soit plus de 21,000 morts sur la route en 2015 et plus de 60,000 blessés. Généralement les personnes percutées sont des noirs, des Européens ou des Asiatiques. Les homosexuels y sont aussi traqués et 80% des personnes interrogées étaient contre le mariage homosexuel et contre l’homosexualité en général qui est contre les principes religieux de l’Islam.

La population qui est 99% Arabe est en fait composée de 15% de Berbères qui s’identifient comme appartenant à la culture Arabe. Les meneurs de l’étude n’ont pas pris les facteurs culturels en compte mais ont surtout accentué leur recherche sur le facteur ethnique.

Les Berbères quant à eux n’aimeraient pas bannir le christianisme ou le judaïsme, ne sont pas contre l’immigration et 51% de gens se sont prononcés pour une interdiction de l’homosexualité dans tous les plans de la vie quotidienne. Les Kabyles eux aussi qui s’identifient en tant qu’arabes n’ont pas montré les mêmes prédispositions.

Dans un pays où la liberté d’expression est quasi inexistante en ce qui concerne l’homosexualité et l’immigration, il est d’autant plus étonnant de voir que ce sont surtout les femmes qui ont voté le plus violemment alors qu’elles ne jouissent pas toutes des mêmes libertés que les hommes.

Plusieurs associations ont dénoncé l’étude du fait que l’individu qui a conduit cette dernière possédait« un nom à caractère terroriste et très islamiste » ce qui aurait faussé la donne.

L’étude en question a été si virulente que les gouvernements occidentaux ont interdit sa publication et que tous les pays du Maghreb, à l’exception du Maroc, n’ont pas feuilleté les 130 pages d’études.

© Gaïa pour www.Dreuz.info

Source : Africa24

Brexit, Euro, Italie, la fin d'un poker menteur

La situation des banques italiennes est aujourd’hui critique. Le dossier de leur recapitalisation occupera une bonne partie de cet été. Il met en cause directement les règles de l’union bancaire, qui est entrée en vigueur au 1er janvier 2016. L’impossibilité pour le gouvernement italien de les respecter met en lumière les dysfonctionnements toujours plus importants de la zone euro.

La part des prêts dits « non-performants » dans le bilan des banques atteint désormais près de 18%, d’après une étude du FMI1. En dehors de la Grèce, où ce taux atteint plus de 34%, c’est le taux le plus élevé de la zone euro. Le Portugal suit d’ailleurs ce mouvement, mais à un niveau bien moindre, puisque le pourcentage des mauvaises dettes n’est « que » de 12%. En montant, on estime le volume total des encours à 360-400 milliards d’euros, dont 70 à 100 milliards devront être couverts, soit par l’Etat, soit par d’autres mécanismes.

 

Tableau 1
Part des prêts « non-performants » dans les bilans bancaires

 

Il faut ici noter que le mouvement de la part des « mauvaises dettes » peut être lié à des causes très diverses. En Irlande et en Espagne, c’était une spéculation immobilière qui avait provoqué ce mouvement. Rien de tel dans le cas de l’Italie, et c’est ce qui rend la progression des mauvaises dettes bien plus inquiétantes. Ces dernières sont issues des prêts qui ont été consentis par les banques régionales italiennes aux PME de la péninsule. En réalité, c’est bien la stagnation économique de ces dernières années qui est la cause de cette crise bancaire qui arrive aujourd’hui en Italie.

L’évolution des données macroéconomiques de l’économie italienne montre l’ampleur de cette crise, et surtout montre que sa cause est clairement l’introduction de l’euro. Si on calcule les évolutions de l’économie italienne depuis 1990, soit en prenant en compte la décennie ayant précédé l’introduction de l’euro, les évolutions sont très marquées et très importantes.

 

Tableau 2
Evolution du PIB, de l’investissement et de l’épargne en Italie depuis 1990

 

 

Source : données du FMI, World Economic Report Database, avril 2016.

La croissance du Produit intérieur brut, qui était relativement forte dans la décennie 1990-2000 est désastreuse dans les années qui suivent l’introduction de l’euro. L’Italie n’a d’ailleurs toujours pas retrouvé son niveau de PIB d’avant la crise de 2007. En fait, le PIB de 2015 se situe à un indice 116% par rapport à 1990 alors qu’il avait atteint l’indice 127% en 2007. Si l’Italie avait pu poursuivre sa croissance au rythme des années 1993-1999, elle serait, en 2015, à un indice 2015. Autrement dit, l’euro a coûté 34% en niveau de PIB en 2015. En PIB par habitant, ce qui constitue une grandeur plus conforme à l’évolution de la richesse de la population, et en supposant la répartition interne de cette même richesse inchangée, l’indice n’est que de 108% par rapport à 1990. Autrement dit, en 25 ans la croissance par tête n’a été que de 8%.

 

Mais, l’évolution de l’investissement (tant public que privé) est encore plus inquiétante. La chute brutale de l’investissement du début des années 1990 — chute qui était nécessaire pour réduire l’ampleur du déficit budgétaire — a été corrigée par la suite, et l’investissement est monté à un indice 125 en 2007. Mais, depuis, il n’a cessé de baisser et il est à un indice 87. Autrement dit, l’Italie investit 13% de moins en 2015 que ce qu’elle investissait en 1990. On ne doit alors pas s’étonner si la productivité du travail régresse dans ce pays et si la qualité des infrastructures publiques, qu’elles soient nationales ou municipales, se dégrade très rapidement à l’heure actuelle.

Cette situation de crise économique générale se traduit donc, dans les bilans bancaires, par la montée des « mauvaises dettes ». Mais, ici, se pose le problème des règles imposées par l’union bancaire. Cette dernière impose que les banques soient recapitalisées par leurs actionnaires et par les déposants. Mais sont considérés comme actionnaires les ménages ayant acheté des titres de dettes de ces banques. Or, ces ménages ont acheté ces titres dans une situation ou le risque de faillite des banques était largement compensé par la possibilité d’un « bail-out » (une opération de secours empêchant la faillite, ndlr) par l’Etat italien. Ces ménages sont, dans une large mesure des retraités et des personnes modestes. Ils sont maintenant pris au piège par les nouvelles règles de l’union bancaire qui imposent un « bail-in » autrement dit qui font porter l’essentiel du risque bancaire sur les actionnaires et les clients. Une première recapitalisation des banques, qui a eu lieu en novembre 2015, s’est traduite par une spoliation d’une partie de ces épargnants.

Le gouvernement italien, fragilisé par le résultat des dernières élections municipales du mois de juin 2016 – élections qui ont vu le succès du M5S à Rome et à Turin – n’a nullement envie de provoquer une crise sociale gravissime dans l’année qui vient. C’est pourquoi il cherche à imposer aux autorités européennes un « bail-out », c’est-à-dire une socialisation des pertes. Mais, sur ce point, il se heurte au refus de l’Allemagne. Ce refus n’est pas seulement dicté par des considérations financières, mais surtout parce qu’il signifierait l’échec de l’union bancaire, et ce moins d’un an après son entrée en vigueur. Dans le bras de fer qui oppose le gouvernement italien et le gouvernement allemand, il n’y aura que des perdants.

Si l’Allemagne impose sa vision, le choc social de la crise bancaire mettra l’Italie à feu et à sang, et provoquera un effondrement des partis traditionnels (PD de centre-gauche et Forza Italia de centre-droit) qui sont de plus rattrapés par de nombreux cas de collusion et de corruption avec les dirigeants des banques. Si le gouvernement italien passe outre l’opposition allemande et se décide à opter pour un « bail-out », l’ampleur des sommes à engager (au minimum 70 milliards d’euros, soit 4,4% du PIB) entraînera une hausse brutale du déficit budgétaire et réduira à zéro la crédibilité des institutions de la zone euro.

 

Tableau 3
Etat des finances publiques en Italie

 

 

Source : Idem, tableau 2.

La crise bancaire italienne occupera certainement une bonne partie de l’été et de l’automne. Or, il faut savoir que cette crise va se dérouler alors que la situation de la Deutsch Bank en Allemagne est des plus préoccupantes, et que les recettes budgétaires de la Grèce sont en voie d’effondrement, avec en particulier une chute moyenne de 20% des recettes de la TVA, en raison de la « grève de l’impôt » qui se développe désormais dans ce pays.

 

Tout se paye, un jour ou l’autre. Ayant refusé le principe de solidarité dans la zone euro, l’Allemagne a imposé sa vision des règles. Mais, elle se rend compte aujourd’hui que cette vision est intenable pour les pays de l’Europe du Sud. Elle est donc coincée entre la poursuite suicidaire d’une politique qui ne marche pas et la reconnaissance de ses erreurs passées. Ce qui rend le problème d’autant plus grave est que le poids de l’Italie est bien plus considérable que celui de la Grèce. Tout le monde comprend qu’une sortie de l’Italie de l’euro sera l’acte de décès de la monnaie unique. La crise grec de l’été 2015 n’a été que le hors d’œuvre ; la crise italienne sera LA crise de la zone euro.

SOURCE:Retrouvez cet article sur le blog de Jacques Sapir.

07/07/2016

Società islamica= società libera ed evoluta

n Bangladesh i proprietari cristiani ed indù di negozi e ristoranti stanno ricevendo volantini dove vengono imposte le regole islamiche da seguire

Se non verranno rispettate”, si legge, “sarete uccisi”.

Le minacce di morte, consegnate direttamente all’interno delle attività commerciali, sono firmate dal gruppo Islamic Khalafat Mujahideen Bangladesh, un’organizzazione radicale bandita nel Paese.

Le direttive scritte nel volantino sono precise. All’ingresso di ogni negozio deve spiccare la scritta “Bi-smi 'llāhi al-Rahmāni al-Rahīmi”, ovvero “In nome di Dio, Clemente, Misericordioso”, con cui si aprono tutte le sure del Corano salvo la sura IX.

All’interno delle attività c’è l’obbligo di avere almeno una copia del Corano e un’immagine della “Kaba Sharif”, il luogo più sacro dell’Islam.

Secondo i fondamentalisti è necessario eliminare qualsiasi cosa che riporti alla propria religione e tutti i negozi devono avere un posto all’interno che permetta ai clienti musulmani di pregare. È inoltre vietato servire carne di maiale e mettere musica.

Nel testo si legge anche che tutte le attività devono rimanere chiuse nel mese di Ramadan e che le donne non devono lavorare.

La pena, per chi non si piegherà alle indicazioni dei jihadisti, è quella di essere uccisi dai membri dell'organizzazione.

www.giornale.it

05/07/2016

Quand le soleil levant decouvre le croissant

Tout a commencé il y a six ans avec la  fuite de 114 dossiers de police dévoilant une opération de surveillance de grande envergure de la communauté musulmane du Japon. Les fichiers diffusés sur Internet font état d’une surveillance systématique des lieux de prières, restaurants hallal et associations islamiques de Tokyo. Ces dossiers ont par exemple dévoilé que pendant le sommet du G8 tenu au Japon en 2008, quelque 72 000 résidents ressortissants des pays membres de l’Organisation de la conférence islamique (dont 1 600 étudiants) avaient été mis sous surveillance, sur la base d’un fichage ethnoreligieux. Par viralité, les fichiers constituant un potentiel « sushileak » ont été téléchargés quelques 10 000 fois à partir d’adresses IP domiciliées dans 20 pays différents.

Surveiller et dédommager

À la suite de ces révélations, 17 musulmans nippons (pour la plupart, des immigrés d’origine nord-africaine et moyen-orientale) ont décidé d’attaquer l’Etat japonais devant la justice pour violation de leurs droits et libertés fondamentales. Après des années de débats et deux procès en appel, la Cour suprême a fini par rendre sa décision il y a un mois. Si les juges nippons ont ordonné à l’Etat de verser 90 millions de yens (presque 800 000 euros) aux plaignants en dédommagement de la violation de leur vie privée, la plus haute magistrature du pays a surtout conclu que ces mesures de surveillance étaient à la fois « nécessaires et inévitables » pour faire face à la menace terroriste.

Faute de statistiques officielles, il est très difficile d’estimer le nombre exact de musulmans résidant au Japon – Wikipedia parle de 170 000 individus dont 100 000 d’origine étrangère. Ces communautés disposent d’une quarantaine des mosquées dont les premières ont été construites dans les années 1930. Plus récemment, une petite dizaine de Japonais convertis à l’islam ont rejoint les rangs de l’Etat islamique, dont l’une des premières exactions mondialement médiatisées fut l’assassinat d’otages nippons.

L’histoire des relations entre le pays du Soleil levant et l’Islam, risque de vivre un nouveau bouleversement, l’association musulmane japonaise ayant entamé des démarches en vue de la construction d’une très grande mosquée à Shizuoka, une ville de 700 000 habitants à deux heures de route de Tokyo. Pour Yassin Essaadi, le résident japonais d’origine marocaine qui préside l’association, cette grande mosquée devrait devenir l’un « des catalyseurs de la propagation de l’islam dans le pays ». Ce projet ostentatoire rappelle les chantiers pharaoniques de mosquées-cathédrales planifiées en Europe.

Sans passif colonial avec le monde musulman, ni difficultés d’intégration liées à une immigration arabo-musulmane massive, le Japon suit pourtant une trajectoire proche de la nôtre. Jusqu’ici, la contribution de la culture japonaise à l’islam se résumait au mot de kamikaze. Les problèmes ne font sans doute que commencer.

SOURCE http://www.causeur.fr/japon-islam-mosquee-yassin-essaadi-38987.html

22/06/2016

Ci prendono per il culo....preparano l'affronto et l'apartheid.... e nessuna reazione

http://www.ilgiornale.it/video/cronache/tabligh-eddawa-ab...

21/06/2016

Point de Democratie sans Souveraineté

Je vais vous raconter une histoire1. Une histoire belge. Plus encore, l’histoire d’un symbole national belge, la mayonnaise qui accompagne les frites servies dans les baraques et les brasseries, et dont la recette traditionnelle fait la fierté de nos voisins. Récemment, un arrêté royal a autorisé à dénommer mayonnaise une préparation contenant 70 et non plus 80% d’huile, et 5 et non plus 7,5% de jaune d’œuf. La raison de cette modification est la demande adressée par l’industrie pour pouvoir rester compétitive face à la concurrence étrangère, qui propose des produits moins chers. Tollé chez les Belges qui dénoncent le dumping, la perte de qualité au nom du profit et protestent en invoquant la tradition, l’identité de leur cher pays qui serait menacée par les assauts de la modernité.

Cette histoire est une parabole chimiquement pure des conséquences d’une mondialisation dérégulée sur un corps politique : impression de dépossession et réaffirmation identitaire. Il y a fort à parier que nos amis belges seront considérés par certains faiseurs d’opinion comme de sympathiques ringards, ou, au pire, d’ignobles chauvins en pleine dérive populiste et identitaire. On leur répondra que c’est le marché qui décide, que si le consommateur préfère payer sa mayonnaise moins cher, c’est l’essence même du libéralisme, et qu’ils ne voudraient tout de même pas interdire la mayonnaise sans huile et sans œufs. Bolchéviques, va ! Et puis, si l’on n’y prend garde, avec ces histoires de mayonnaise, on va finir par parler protectionnisme, et autres lubies xénophobes. Le repli l’aura emporté sur l’ouverture, la haine sur la générosité et l’accueil. De quel droit est-ce qu’ils préfèrent leur mayonnaise, ces Belges ?

Alors nous y sommes. Parler de souveraineté a-t-il encore un sens dans un monde globalisé ? C’est la question qui nous rassemble et il n’y a pas de hasard à la poser en un 18 juin, 76 ans après un appel qui prenait justement acte de la dimension mondiale de la guerre pour en appeler à la légitimité face à la légalité qui s’était exprimée la veille à travers la demande d’armistice du Maréchal Pétain. Nous y reviendrons, mais l’homme du 18 juin est aussi celui qui déclarera le 27 mai 1942 : « La démocratie se confond exactement, pour moi, avec la souveraineté nationale. La démocratie, c’est le gouvernement du peuple exerçant la souveraineté sans entrave. »

Parler de souveraineté quand le territoire national est occupé, quand l’Etat et ses rouages ont choisi de collaborer avec l’ennemi, voilà qui est compréhensible. Mais aujourd’hui ? Est-ce que ça ne relèverait pas d’une vieille rengaine masquant des obsessions plus coupables ?

Le danger souverainiste selon Joffrin, Attali, FOG, BHL…

Il y a déjà plusieurs années que le qualificatif « souverainistes » est accolé à ces inclassables qui naviguent entre la droite et la gauche et à qui l’on a fait rendre gorge de la tonitruante victoire du 29 mai 2005. Souverainistes, c’est quand on ne dit pas « nationaux-républicains » ou autres joyeusetés. Mais souverainistes, ça ne dit pas grand-chose au plus grand nombre. Seulement le terme a ressurgi. Souvenez-vous, c’était à l’automne dernier. Libération décide de consacrer une une à Michel Onfray après son interview dans le Figaro. Et le philosophe est accusé d’avoir dérivé vers l’extrême droite, de s’abandonner à des idées nauséabondes, rances, et tout autre adjectif cher à nos anti-fascistes au nez sensible. Quelques jours plus tard, après diverses passes d’armes par médias interposés, Laurent Joffrin lâche l’argument ultime : Onfray est sur « la pente glissante du souverainisme ». Une pente qui amène à « défendre la nation au nom de la justice sociale », mais qui, nous dit le débusqueur de déviants, « finit toujours par préférer la nation à la justice sociale ». Qui prétend protéger son peuple pour mieux détester les autres. Qui rêve de frontières quand il faudrait tendre la main, ouvrir le cœur… Amen.

Le souverainisme, voilà l’ennemi. Dans un journal censément de gauche comme Libération, mais aussi dans un journal de droite libérale comme le Point. Il suffit de lire un seul éditorial de Franz-Olivier Giesbert (c’est déjà un effort) pour s’apercevoir qu’il est parti en croisade contre le souverainisme, ce nouveau fléau (parti est bien le terme : on l’a perdu depuis longtemps). Mais on pourrait citer également Bernard-Henri Lévy chez qui la lutte contre le souverainisme relève de l’exorcisme. Jacques Attali, très fier de sa dernière trouvaille, une réplique qu’il ressort dans chaque émission, face à chaque journaliste esbaudi : « Qu’est ce que c’est que cette histoire de racines. Nous ne sommes pas des radis. » Pas des chênes non plus, apparemment.

C’est donc tellement dangereux, le souverainisme, qu’il faille dégainer l’arsenal intellectuel, tout ce que le pays compte de brillants esprits ? Le souverainisme, c’est la guerre, la haine de l’Autre, le repli identitaire. Le souverainisme, ce sont les heures les plus sombres de notre histoire. Bon, le mot n’existait pas, mais on comprend. Le souverainisme occupe dans le vocabulaire politique contemporain la même place que le populisme. Il veut désigner une sorte de manipulation des masses par un discours démagogique et dont ses auteurs sauraient parfaitement combien son application serait soit impossible soit éminemment dangereuse pour l’avenir du pays.

Le libre-échange apporte la paix, bien entendu !

Parce que tel est bien le sujet qui les préoccupe. Bien plus que la dimension morale mise en avant pour rejouer la pantomime de l’antifascisme. Le souverainisme est condamnable parce qu’il s’oppose à la marche du monde, parce qu’il prétend refuser l’inéluctable, qui est aussi le seul destin souhaitable. Nous sommes bien d’accord, la morale n’a pas grand-chose à voir avec tout cela. On parle de choses sérieuses. On parle d’économie. Le souverainisme se promène en général dans les articles et les sermons audiovisuels accompagné de son corollaire tout aussi sulfureux : le protectionnisme. Et les deux sont dangereux, car ils apportent la guerre quand le libre-échange, le « doux commerce » cher à Montesquieu, apporte la paix et la concorde entre les peuples.

Il est d’ailleurs intéressant de constater que ce qui nous est proposé comme modèle, l’extension du libre-échange à travers différentes structures supra-nationales pour accompagner la mondialisation des échanges et la globalisation des normes et des cultures, nous est présenté à la fois comme bon moralement et comme inéluctable. Bon parce qu’inéluctable ? On nous demande de nous en réjouir parce que, de toute façon, nous n’avons pas le choix et qu’il faudra bien vivre dans ce monde-là ? Nos élites politico-médiatiques sont leibniziennes : elles nous proposent le meilleur des mondes possibles et ne lésinent pas sur les moyens de nous en convaincre.

Mais deux problèmes se posent à tout esprit un minimum éveillé. Le premier : en quoi cette globalisation qui détermine actuellement l’organisation de nos économies et, par capillarité, l’ensemble de nos modes de vie, est-elle inéluctable ? La mondialisation, c’est-à-dire l’augmentation des échanges et de la circulation des individus, existe à différentes échelles depuis Alexandre le Grand. Elle est un fait. Un fait qui découle aujourd’hui du développement des moyens de transports et de la révolution technologique qui transforme les informations et les capitaux en flux. Et l’on peut ajouter que la troisième révolution industrielle, celle de l’informatique, lui donne une dimension qui n’a plus rien à voir avec ce qui a précédé. Très bien. Mais la globalisation, c’est-à-dire l’uniformisation des normes et du droit pour faciliter le flux et étendre une conception unique de l’organisation des sociétés humaines, est-elle de l’ordre de la nécessité ? Pour le dire autrement, était-il obligatoire d’accompagner la mondialisation d’un mouvement de dérégulation massif qui profite aux acteurs dominants que sont les multinationales majoritairement anglo-saxonnes ?

L’économie, comme la physique, serait une science dure !

Leibniziens, nos dirigeants : ce qui est ne pouvait pas ne pas être… Je vous invite à lire sur le blog de Coralie Delaume, l’Arène nue, la traduction d’un passionnant article publié dans le Guardian. Il est signé George Monbiot et il nous prouve que ce sont les médias anglo-saxons qui nous en remontrent en matière de liberté de ton et de profondeur d’analyse. On cherchera vainement un équivalent, sur une telle longueur, appuyé sur une démonstration historique précise, dans la presse française. Que nous dit cet article ? Que l’idéologie qui domine nos vies nous est à peu près inconnue parce qu’elle ne se présente pas comme une idéologie mais comme un fait de nature. « Les tentatives visant à limiter la concurrence, nous dit Monbiot, sont considérées comme des dangers pour la liberté. L’impôt et la réglementation sont considérés comme devant être réduits au minimum, les services publics comme devant être privatisés. L’organisation du travail et la négociation collective par les syndicats sont dépeints comme des distorsions du marché qui empêchent l’établissement d’une hiérarchie naturelle entre les gagnants et les perdants. L’inégalité est rhabillée en vertu : elle est vue comme une récompense de l’utilité et un générateur de richesses, lesquelles richesses ruisselleraient vers le bas pour enrichir tout le monde. Les efforts visant à créer une société plus égalitaire sont considérés comme étant à la fois contre-productifs et corrosifs moralement. Le marché est supposé garantir que chacun obtienne ce qu’il mérite. » Le néolibéralisme fut pourtant assumé comme tel, sous ce nom, par ses concepteurs, Ludwig von Mises et Friedrich Hayek en 1938. Mais depuis, il a disparu. Quand vous prononcez ce mot dans les médias, certains se gaussent. Vous traitent quasiment de complotiste, en tout cas d’aimable plaisantin qui, bien sûr, ne connaît rien à l’économie. Parce que l’économie est une science. Une science dure. Elle s’appuie sur des lois aussi évidentes et nécessaires que les lois de la physique. La concurrence et l’autorégulation des marchés, c’est la loi universelle de la gravitation.

Du coup, un doute nous saisit. Et c’est le second problème posé par cette idéologie dominante. Si la globalisation relève de la fatalité, il n’y a rien à choisir. Il n’y a pas de liberté possible face à la nécessité. Mais alors, sommes-nous encore en démocratie ? On nous demande de désirer ardemment ce qui nous est de toute façon présenté comme notre destin, sans échappatoire, parce que dans ce désir que nous développerions se trouverait l’illusion du choix, l’illusion de la liberté. En rhétorique journalistico-politique, cela donne des choses du genre : « Nous sommes les seuls à rêver encore qu’on peut – au choix – maintenir un tel niveau de charges, et donc de protection sociale, conserver des services publics non ouverts à la concurrence… », « Nos voisins, eux, se portent très bien… » On l’a bien compris, « il n’y a pas d’alternative ». Il est assez croustillant d’entendre cette antienne thatchérienne reprise aujourd’hui par un ministre de l’Economie « de gauche », poulain de Jacques Attali, ancien conseiller d’un président de la République de gauche, qui proposait de changer la vie et pour qui Margaret Thatcher incarnait un repoussoir absolu. Il est vrai que le même Emmanuel Macron fut rapporteur de la commission Attali à l’origine de la « loi pour la libération de la croissance » mise en place par Nicolas Sarkozy. Qui n’en appliqua que quelques recommandations car il jugeait l’ensemble trop libéral. En effet, il n’y a pas d’alternative. Politiquement, du moins.

Où est passé le politique ?

Mais s’il n’y a pas d’alternative, où est la liberté ? Où est le politique ? Qu’il faille tenir compte des contraintes du réel est une évidence et la liberté est limitée par le réel. Mais encore faut-il se mettre d’accord sur le réel, ses lois et les limites qu’elles imposent. Et l’on voit mal comment des gens qui adhèrent à un économisme dont l’objet est de se présenter comme le fruit de lois naturelles, peuvent encore se faire passer pour libéraux quand ils finissent par nier toute forme élémentaire de liberté.

La question sous-jacente est donc bien celle-là, celle de la démocratie. Celle qui ressurgit à chaque fois qu’un dirigeant (en général pour des raisons politiciennes, Cameron sur le Brexit, Jacques Chirac en 2005) prend le risque démesuré de demander directement son avis au peuple par un referendum. A vrai dire, c’est l’idée même de demander son avis au peuple qui paraît alors irresponsable. On nous ressortirait presque la rhétorique sur les « classes dangereuses ». Du moins a-t-on droit à la litanie habituelle : populisme, démagogie face à un peuple incapable de juger en connaissance de cause et qui, bien évidemment, se déterminera sur des critères qui n’ont rien à voir avec la question posée. Comment voulez-vous, ils n’y comprennent rien ces braves gens…

Démocratie, referendum, liberté des peuples de choisir leur destin… la notion qui sous-tend ce débat est bien celle qui est au cœur de la réflexion des irresponsables, des dangereux, vous savez, ces souverainistes honnis : la souveraineté. Etre souverainiste, c’est assumer le fait que ce concept de souveraineté est crucial pour quiconque prétend penser l’organisation du corps social et politique dans un cadre à peu près démocratique. Bref, pour qui entend répondre à l’économisme, nouvelle idéologie dominante, par un concept politique.

Curieusement, ce concept vieux de quatre siècle semble devenu totalement incompréhensible pour les dirigeants de nos vieux Etats-nations et pour les commentateurs chargés d’analyser leurs décisions. Alors rappelons la définition classique, celle de Louis Le Fur : « La souveraineté est la qualité de l’Etat de n’être obligé ou déterminé que par sa propre volonté dans les limites des principes supérieurs du droit et conformément au but collectif qu’il est appelé à réaliser. » La souveraineté est d’ailleurs définie au XVIème siècle par Jean Bodin pour caractériser cette puissance d’un Etat qui ne peut se résumer aux vieux concepts romains de potestas et auctoritas. Mais c’est à la révolution qu’il prend tout son sens pour nous, Français. Parce qu’à la souveraineté nationale, cette indépendance qui permet à une nation de se déterminer sans dépendre d’une autre puissance, s’ajoute la souveraineté populaire. Ce n’est plus le roi qui incarne la Nation et détermine son destin, c’est le peuple qui est son propre souverain. Oxymore extraordinaire que le peuple souverain ! Il n’est plus mineur. Il n’y a plus de sujets, donc de soumis, mais des citoyens. Des citoyens qui constituent un corps politique et déterminent par la délibération le bien commun, qui ne se réduit pas à la somme de leurs intérêts particuliers. Des citoyens qui se choisissent en conscience un destin commun.

Cela s’appelle la République, et c’est la forme que prend chez nous la démocratie. Car il est bien question de démocratie. Et de Gaulle prend soin de le préciser dans la Constitution de 1958 : « Article 2 : La devise de la République est “Liberté, Égalité, Fraternité”. Son principe est : gouvernement du peuple, par le peuple et pour le peuple. Article 3 : La souveraineté nationale appartient au peuple qui l’exerce par ses représentants et par la voie du référendum. Aucune section du peuple ni aucun individu ne peut s’en attribuer l’exercice. » Globalisation ou pas, révolution technologique ou pas, il n’est pas de démocratie sans l’exercice par le peuple de la souveraineté nationale.

Pourquoi vouloir distinguer souveraineté nationale et souveraineté populaire ?

Et l’on en connaît qui prennent des pincettes, qui tournent autour du pot, qui construisent des raisonnements byzantins pour distinguer souveraineté nationale et souveraineté populaire, la seconde leur semblant plus respectable, plus « gauche bon teint ». Parce que dans souveraineté nationale, il y a nation, et de la nation, on glisse facilement vers le nationalisme, surtout en une époque où les journalistes sont devenus commentateurs de patinage artistique et s’emploient essentiellement à juger des glissades et autres dérapages des uns et des autres. Mais brisons là. Quel peuple peut se dire souverain dans une nation entravée, sous domination ? Quel peuple décide de son destin quand le champ de sa souveraineté est borné à quelques domaines réservés ? Se cacher derrière son petit doigt dans l’espoir de n’être pas chassé du camp du Bien a quelque chose de pathétique.

Et puis il y a ceux qui font semblant de ne pas comprendre. « Souveraineté ? Comme ce terme est vague. Mais qu’est-ce que vous entendez par là ? Ne sommes-nous pas libres dans un système démocratique garanti par la Constitution ? Pourquoi s’accrocher à un mot ? » Pour les vrais atrophiés du cervelet et les faux idiots, il est une façon simple de résumer les choses. C’est d’ailleurs celle qu’emploie Michel Onfray depuis qu’il a décidé d’assumer son souverainisme. Il l’explique dans son dernier livre, le Miroir aux alouettes. Il suffit de demander à nos aimables contradicteur quel est le contraire de souverain. Les antonymes de souverain sont : subordonné, esclave, domestique, sujet, soumis, vassal. Au moins, les choses sont claires. Je vous renvoie d’ailleurs également – et surtout – au livre de Jacques Sapir, Souveraineté, démocratie, laïcité.

On nous répondra bien sûr que tout cela relève du fantasme, que nous sommes en démocratie, dans un pays indépendant dont les gouvernements élus mènent les politiques. Il n’y a pas de sujet. Tout au plus avons-nous concédé quelques délégations de souveraineté à une entité supranationale, mais elle aussi démocratique puisque nous en élisons le parlement, et uniquement dans des domaines aussi restreints que la monnaie et le budget. Une paille.

Maastricht ou l’enterrement de 1789

Il n’est besoin que de réécouter le magistral discours de Philippe Séguin devant l’assemblée nationale le 5 mai 1992 pour comprendre ce qui s’est joué lors du Traité de Maastricht, et qui est à l’origine d’une partie des crises qui minent le pays. Philippe Séguin soulignait que le fondement de notre Etat de droit, depuis deux siècle, est dans cette idée que la souveraineté nationale appartient au peuple, de sorte que ses représentants, l’Assemblée nationale en l’occurrence, n’ont aucune compétence à se dessaisir de leur pouvoir législatif et à valider par avance des textes qui n’auront même pas à être ratifiés par eux. « Aucune assemblée ne peut déléguer un pouvoir qu’elle n’exerce qu’au nom du peuple. » Ce que le peuple a fait, seul le peuple peut le défaire. En ce sens, nous dit-il, 1992 est l’enterrement de 1789.

Caricature ? Dramatisation loufoque ? On nous répond d’abord que cette délégation de pouvoir est limitée. Elle ne concerne que certains domaines. L’Etat conserve ses missions régaliennes. La souveraineté monétaire, ce n’est rien, ça ne détermine pas l’identité collective. Philippe Séguin répondait par avance : la souveraineté est une notion globale et indivisible, comme un nombre premier. La découper, c’est la vider de sa signification. Le dernier à l’avoir fait était Brejnev en 1968 avec son concept de « souveraineté limitée » appliqué aux démocraties populaire. Ce qui signifiait ni souveraineté ni démocratie…

On nous répond également que ces délégations de souveraineté sont temporaires. Tiens donc. Pourtant, quand il s’est agit de suggérer que la Grèce devrait quitter, même temporairement, la zone euro, la réponse a été unanime : c’est impossible. Ça n’est pas prévu par les traités. Vous savez, le fameux « il n’y a pas de plan B ». Les plus batailleurs brandissent le fameux article 50 du traité de Lisbonne, qui prévoit une éventuelle sortie au bout de deux ans de négociations et d’une décision à l’unanimité des membres. Une usine à gaz propre à décourager les plus téméraires. Non, une fois qu’on est entré, on ne sort plus. D’où l’indignation de ces braves gens quand les Britanniques se permettent de voter sur le Brexit. Mais de quel droit s’autorisent-ils ce que nous nous sommes interdit ?

La base de la démocratie, c’est que le peuple peut changer d’avis

Quel que soit le résultat du referendum, jeudi prochain, c’est ce vote en lui-même qui constitue la plus majeure des transgressions. Parce qu’il nous rappelle ce qu’est un contrat : une délégation temporaire de souveraineté en échange d’avantages ou de protection. Temporaire, tel est bien l’enjeu. La base de la démocratie, c’est que le peuple peut changer d’avis. Nulle génération ne peut enchaîner les suivantes, leur interdire d’exercer leur propre souveraineté. Ce qui a été fait, donc, doit pouvoir se défaire. Sans quoi il n’est pas de démocratie. La désormais fameuse sentence de Jean-Claude Junker – dont la plus grande vertu est d’exprimer sans complexe ce que d’autres préfèrent recouvrir d’un voile pudique – ce « il n’est pas de choix démocratique en dehors des traités européens » résume l’idée que ces gens se font de la démocratie.

D’autant que ce transfert sans retour des compétences de l’Etat ressemble fort à un cercle vicieux. On se souvient de la merveilleuse rhétorique soviétique : le goulag, le cauchemar, les pénuries, c’est parce que le processus n’est pas arrivé à son terme et que le paradis communiste n’est pas encore totalement bâti. La technocratie ? Elle n’est qu’un mal provisoire pour préparer cet avènement. Le principe vaut pour toutes les idéologies et la construction de l’Europe néo-libérale en est une dans toute la pureté de sa définition et de ses conséquences. Elle a ses zélotes et ses prophètes. Ses grands inquisiteurs, aussi.

Réécoutons un instant le discours de Philippe Séguin : « Quand, du fait de la monnaie unique, le coût de la dénonciation des traités sera devenu exorbitant, le piège sera refermé. Craignons alors que les sentiments nationaux, à force d’être étouffés, ne s’exacerbent jusqu’à se muer en nationalisme. Car rien n’est plus dangereux qu’une nation trop longtemps frustrée de la souveraineté par laquelle s’exprime sa liberté, c’est-à-dire son droit imprescriptible à choisir son destin. » Il y aura fallu moins de vingt-cinq ans. Mais nous y sommes. Et le seul argument qui reste aux grands prêtres de l’Union européenne est de renverser l’ordre des causes et des conséquences. Le mal, c’est ce nationalisme préexistant, et que l’on n’a pas assez écrasé. Donc, il faut protéger l’Europe contre ses propres démons. Ils plaideront les meilleures intentions du monde : éviter à des peuples abrutis bernés par des démagogues sans vergogne de sombrer dans une récession tragique et, qui sait, dans des guerres sanglantes.

On ne renonce pas impunément à la souveraineté

C’est oublier que la récession, nous y sommes. Et que les maux dont nous souffrons, chômage de masse, déficit de la balance commerciale, désindustrialisation massive, étaient prédits par tous ceux qui avaient correctement analysé ce que signifie le processus d’intégration dans une monnaie unique d’un espace économique hétérogène. Et les souffrances engendrées par ce naufrage économique font naître des tensions dont nous voyons en ce moment la traduction. Parce qu’on ne renonce pas impunément à la souveraineté.

Comment imaginer qu’un corps politique qui a renoncé à ce qui fait sa raison d’être puisse ne pas imploser ? C’est à cette fragmentation que nous assistons. Fragmentation du corps politique, de la communauté nationale, largement encouragée par ceux qui ont intérêt à définitivement achever ces Etats-nations empêcheurs de commercer en rond. Au profit d’une autre souveraineté ? On connaît le mythe d’une citoyenneté européenne qui devrait se substituer par miracle aux citoyennetés nationales. C’est faire peu de cas de l’Histoire. C’est ne pas comprendre que la constitution d’une Nation à travers l’émergence d’un peuple sur un territoire déterminé est un processus lent et complexe et surtout impossible à reproduire artificiellement en l’espace de quelques années.

Reste le processus inverse. Pour se débarrasser des vieux Etats-nations et de leur encombrante démocratie, saper ce qui en est le corps vivant, le peuple comme entité politique. Ce peuple qui naît en France de l’intégration de populations diverses à une histoire et une géographie, à un ensemble de valeurs et de modes de vie, sans lesquels il n’est que des individus juxtaposés dans une entité administrative neutre régie par le droit et le marché. L’accomplissement du rêve thatchérien : « Je ne connais pas la société, je ne connais que des individus. » Tout ce qui fracture la communauté nationale, tout ce qui efface la culture commune de citoyens dont les identités diverses étaient jusqu’à présent transcendées par l’appartenance commune à la Nation, sert les intérêts d’un système dont le but est fondamentalement anti-démocratique.

Jusqu’à preuve du contraire, il n’est pour l’instant de véritable exercice de la démocratie que dans le cadre des Etats-nations. Nous avons donc remplacé la souveraineté nationale par… rien. Par un vide que vient remplir une inflation technocratique chargée de masquer la réalité de ce système, son objet principal : favoriser les intérêts d’entités privées et déterritorialisées, de Google à Monsanto en passant par Amazon, Apple, Philipp Moris… ces multinationales qui ont quelques 15 000 lobbyistes à demeure à Bruxelles et qui s’appliquent pour l’heure à dicter à la Commission des traités de libre-échange permettant de lisser l’espace économique et d’imposer pour les décennies futures les normes et le droit américain.

Les efforts de quelques vigies ont déjà permis de faire prendre conscience de l’absence totale de transparence qui entoure les négociations et qui constitue en elle-même un total déni de démocratie. Mais le principe d’irréversibilité que nous évoquions tout à l’heure y est également à l’œuvre avec une détermination admirable, à travers ce qu’on appelle les effets de cliquet. Tout ce qui aura été négocié ne pourra plus être révisé, même par un gouvernement nouvellement élu. « Il n’est pas de choix démocratique en dehors des traités européens »

L’économisme, ce totalitarisme

L’économisme, cette idéologie de réduction des différents champs de l’action humaine à leur dimension économique, n’est donc rien d’autre qu’un totalitarisme d’autant plus efficace qu’il repose sur le consentement des individus. Qui serait contre la prospérité ? Qui serait contre la liberté ? Même quand la liberté dont il est question n’est qu’une privation des libertés politiques fondamentales qui font le citoyen au profit de la liberté minimale du consommateur, celle de choisir entre deux produits en fonction de ses pulsions immédiates et de son intérêt à court terme.

Et c’est sans doute le dernier élément qui permet de comprendre l’articulation entre souveraineté et démocratie : il n’est pas de souveraineté du peuple sans souveraineté des individus, c’est-à-dire sans la capacité à exercer leur libre arbitre et à forger leur jugement sans dépendre d’autrui. Pour le dire autrement, il n’est pas de démocratie sans éducation du peuple. Rien de plus efficace, donc, pour délégitimer le peuple que de détruire le principal outil de son émancipation : l’instruction publique.

Il n’y a aucun hasard à voir les différentes réformes de l’éducation nationale remplacer la transmission des savoirs universels dont Condorcet faisait la condition de la formation d’hommes libres par une évaluation des compétences, terme importé de la formation professionnelle et inspiré des recommandations de l’OCDE et de la Commission européenne en matière d’éducation. L’éducation, domaine supposé régalien, dans lequel, nous explique-t-on, la France n’a pas opéré de transfert de compétences (sous entendu : elle est responsable de ses échecs). L’éducation qui est en fait l’un des principaux champs d’expérimentation pour cette extension du domaine de l’efficience économique. Il n’est besoin que de rappeler le Livre Blanc de la Table ronde des Entreprises Européennes en 1995 : « L’éducation doit être considérée comme un service rendu aux entreprises. »

Les compétences, c’est ce qui permettra de former des employés adaptables (d’augmenter, pour utiliser le jargon en vigueur, leur « taux d’employabilité »). Les mêmes sur quelque lieu de la planète que ce soit, puisqu’il n’est plus question de peuple ou de nation, ces réalités du monde ancien. Des employés qui, pour se délasser, pourront offrir à Coca Cola un peu de leur temps de cerveau disponible, sur lequel les chaînes de télévision font leur beurre.

L’articulation entre souveraineté nationale, souveraineté populaire et souveraineté des individus est donc indispensable pour former un authentique système démocratique. Et, à moins d’estimer que la mondialisation des échanges implique la disparition nécessaire de la démocratie, on conviendra que rien ne justifie son abandon au profit d’une technocratie déterritorialisée. Bien au contraire, il n’est de mondialisation véritablement bénéfique qu’organisée et régulée. Que ce soit sur le plan des barrières douanières (les Etats-Unis ne se sentent nullement gênés de prévoir des droits de douane de 522% sur l’acier chinois, quand l’Union européenne les fixe à 20%), ou que ce soit sur le plan du droit, à travers les réglementations visant notamment les produits agricoles protégés par une appellation d’origine. Si la mondialisation est un fait, la globalisation est une idéologie. Et comme toute idéologie, elle nécessite d’être explicitée, de voir analyser ses ressorts et ses présupposés.

« Quand on est couillonné, on dit : “Je suis couillonné. Eh bien, voilà, je fous le camp !” »

Mais pour résumer ce que doit être l’exercice par une nation de sa souveraineté, c’est encore le Général de Gaulle qui en a le mieux explicité les contours face à Alain Peyrefitte : « C’est de la rigolade ! Vous avez déjà vu un grand pays s’engager à rester couillonné, sous prétexte qu’un traité n’a rien prévu pour le cas où il serait couillonné ? Non. Quand on est couillonné, on dit : “Je suis couillonné. Eh bien, voilà, je fous le camp !” » Ce sont des histoires de juristes et de diplomates, tout ça. »

Nous sommes, au Comité Orwell, une association de journalistes. Parce que nous estimons qu’appartient à notre profession le soin d’expliciter les ressorts de toutes les idéologies, de mettre au jour les processus qui sont à l’œuvre derrière l’apparence des événements. Il appartient à notre profession, non pas seulement de commenter les manifestations contre la loi travail, les violences qui en découlent ou l’impuissance des gouvernants, mais de mettre en avant l’ensemble des phénomènes qui concourent à délégitimer un Etat qui, parce qu’il a depuis longtemps renoncé à sa souveraineté, n’est plus qu’une institution fantôme incapable de contrer les forces centrifuges qui déstructurent la société. Il appartient à notre profession de ressortir les différents textes de la Commission européenne ou d’autres instances supranationales réclamant une harmonisation du droit du travail pour œuvrer à la convergence des économies (ce que, une fois encore, prévoyait Philippe Séguin dans son discours de mai 1992). Il appartient à notre profession de ne pas seulement disserter sur la question de savoir si les opposants à la réforme du collège sont d’affreux réactionnaires, mais de décrire avec précision tous les ressorts de la transformation de l’Education nationale en auxiliaire de l’idéologie utilitariste, à rebours de tout le projet de l’école républicaine. Il appartient à notre profession de ne pas être tributaire du flux des informations et de la superficialité qu’il facilite, mais de décrire les rouages, d’éclairer les infrastructures et non pas seulement les superstructures, pour parler en termes marxistes. Comme l’a dit très judicieusement Lincoln, « on peut mentir tout le temps à une partie du peuple, on peut mentir à tout le peuple une partie du temps, mais on ne peut pas mentir tout le temps à tout le peuple. » A moins de changer le peuple de temps en temps.

Alors il nous appartient d’offrir un peu de résistance. Profitons-en, nous sommes aujourd’hui le 18 juin. Et ce mois de juin 2016 a des airs de débâcle, comme un certain mois de juin 1940. La souveraineté, la démocratie, l’émancipation des peuples : quel plus beau programme ?

SOURCE http://www.causeur.fr/natacha-polony-comite-orwell-souver...

Islamisme...un tabou!

L’honnêteté intellectuelle m’oblige à informer les lecteurs de Causeur d’une avancée sensationnelle de la pensée scientifique parue dans Libération du 16 juin. Il s’agit d’une tribune d’Éric Fassin, un de nos sociologues médiatiques les plus sociologiquement corrects. Sa  tribune est si correcte, et même si corrective, qu’elle propose rien moins qu’une révolution copernicienne dans la science.

Jusqu’à ce 16 juin 2016, la science, fut-elle sociale, s’efforçait de construire et de saisir ses objets au moyen de concepts et de définitions saisissant leur essence. L’une des branches des sciences sociales est la polémologie : Étude scientifique de la guerre considérée comme phénomène psychologique et social.

Cette science s’obligeait à identifier l’ennemi, à en construire le concept, à en connaître l’essence, tout cela afin de le désigner adéquatement et de le combattre sans manquer la cible. Avant la tribune d’Éric Fassin, nous avions l’impression que l’islamisme  terroriste nous avait constitués en ennemis et que nous pouvions lui imputer ses crimes. Cette vision archaïque de la scientificité a vécu.

Désormais, nous explique Eric Fassin en s’appuyant sur une déclaration d’Obama, on doit désigner un criminel par ses victimes. C’est ainsi que les Daechiens qui assassinent des homosexuels au nom de leur lecture du Coran ne doivent être désignés que comme des homophobes, et pas comme des islamistes.  Quand les mêmes assassinent des Juifs  au nom de leur lecture du Coran, il faut les appeler des antisémites, et pas des islamistes.  Quand, eux encore, mettent des femmes en esclavage sexuel au nom de leur lecture du Coran, il faut les qualifier de misogynes, et certainement pas d’islamistes. La chose devient un peu plus délicate quand les mêmes assassinent indistinctement des gens assis à une terrasse, assistant à un concert ou à un match, prenant un moyen de transport public ou présents dans une grande surface. On peut heureusement compter sur l’inventivité des penseurs du grand évitement. Il faut à ce propos féliciter Obama qui n’a dénoncé dans la tuerie d’Orlando qu’une conséquence du nombre des armes en circulation.

Voici le titre de sa tribune consacrée à la tuerie d’Orlando : « Orlando : parlons d’abord de terrorisme sexuel ».

Et en voici le résumé.

« Renvoyer la tuerie du Pulse vers l’islam et l’islamisme, c’est tomber dans le piège tendu par les partisans du «choc des civilisations». C’est aussi céder à une instrumentalisation xénophobe et raciste de la «démocratie sexuelle».

Sa démonstration est si lourdement alambiquée que j’invite les lecteurs de Causeur à aller la lire dans son intégralité dans Libé. Ils trouveront également dans ce même journal un interview de psychanalystes  consacré à la tuerie d’Orlando, dans lequel il n’est question que de l’homophobie en général, sans un mot sur l’homophobie meurtrière et barbare des islamistes.

L’impératif épistémologique absolu des sciences sociales correctes est donc de ne jamais proférer le mot islamisme. Le mot est décrété scientifiquement tabou. On pourra le vérifier lors des prochaines tragédies.

Leur devise :  ne pas appeler les choses par leur nom ; ne pas identifier l’ennemi ; ne pas le combattre.

On dira ce qu’on veut, mais pour une révolution, c’est une sacrée révolution.

ANDRE SENIK sur http://www.causeur.fr/orlando-eric-fassin-islam-homophobie-38793.html

31/05/2016

Les bêtes de l'Etat Islamique craignent Rojida Felat

La commandante kurde Rojda Felat conduit un contingent de 15.000 soldats ayant participé à l'attaque contre l'organisation terroriste Etat islamique (EI, Daech) près de Raqqa en Syrie.​Ces soldats représentent l'alliance kurde-syrienne, qui a pour nom Forces démocratiques de la Syrie (SDF), composées des Unités de protection du peuple kurde (YPG) ainsi que des groupes d'insurgés arabes et assyriens, d'après la chaîne de télévision norvégienne NRK.

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Rojda Felat promet de chasser Daech des zones situées au nord de Raqqa et de conserver les villes desquelles les terroristes sont déjà expulsés.

"Nos attaques continuent dans la direction de Tabqa. Nous chasserons les gangs de Daesh dans quatre directions différentes", a-t-elle déclaré.

​L'offensive qui a commencé la semaine dernière avait pour but de prendre tout d'abord le territoire au nord de la ville de Raqqa.

Ceux qui connaissent la situation qui règne au sein de l'EI soulignent que les membres de cette organisation sont effrayés de la commandante kurde, dans une large mesure, parce qu'elle a la réputation d'un bon stratège, mais surtout parce qu'elle est une femme.

Les djihadistes croient que le fait de tomber au combat les fera entrer au paradis, mais à condition de ne pas être morts de la main d'une femme. Le cas échéant, ils ne peuvent pas être considérés comme des martyrs, ce qui les prive d'un accès au paradis.

(Plus Con tu meurs! NDR)

La Kurde Rojda Felat lutte contre l'Etat islamique depuis les trois dernières années. Agée de 30 ans, selon le journal britannique The Independent, elle se présente comme une féministe désireuse d'aider les femmes syriennes et kurdes à se libérer des traditions qui les humilient.

Comme commandante militaire, on la dit très inspirée par les exemples de Bismarck, de Napoléon, et de Salah al-Din. Elle a précisé que son objectif principal était de chasser Daech de toute la Syrie et de mettre fin au terrorisme et à la tyrannie.

Auparavant, les Forces démocratiques de la Syrie (SDF) de l'opposition armée, composées principalement de détachements kurdes et arabes, avaient annoncé une opération visant à libérer Raqqa, fief des djihadistes de Daech.

SOURCE www.sputniknews.fr