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26/05/2016

Austria : La democrazia confiscata dall'UE, costi quel che costi

L’Austria è un piccolo Paese ed è una democrazia consolidata. I politologi sanno che più è piccolo è il Paese, più efficaci sono i controlli, meno elevato è il rischio di brogli. Sì, come in ogni comunità sono possibili pressioni su singoli elettori e “galoppinaggi” ma in proporzioni talmente limitate da risultare ininfluenti, soprattutto in un’elezione nazionale.

Per questa ragione, a caldo non ho creduto ai sospetti di brogli sulle presidenziali, decise al fotofinish. Ora però il sospetto diventa decisamente plausibile. Alcuni media austriaci hanno rilevato anomalie macroscopiche.

Nel collegio “Waidhofen an der Ybbs”, l’affluenza al voto è stata del… 146,9%. Sî, avete letto bene: 146,9%. Ci sono stati più votanti degli aventi diritto: 13.262 quelli che si sarebbero recati alle urne contro i soli 9.026 che avrebbero potuto partecipare alla consultazione elettorale. Ha vinto, ovviamente, Van der Bellen, che ha collezionato il 52,7% (6.621 voti) contro il 47,3% del candidato di destra, Hofer (5.938 voti)”.

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Vabbè, si potrebbe pensare, sono circa 700 voti. Ma che dire di quel che è successo in una città come Linz? L’affluenza alle urne, nel caso di voto ‘per conto terzi’ è stata addirittura del 598%: si tratta di persone malate che danno la procura ad altre per votare al posto loro (vedi qui). Invece dei 3.580 votanti registrati, ne sono stati contati 21.060! Naturalmente ha vinto Van der Bellen, che ha ottenuto 14mila di questi miracolosi 21mila votanti e staccando Hofer di 8500 schede.

Mauro Bottarelli sul Sussidiario segnala inoltre come il numero dei votanti dall’estero sia aumentato di 20mila schede in una notte: il presidente della Commissione elettorale ha dichiarato che ne erano state consegnate 740’000, stimando che quelle valide sarebbero state 700’000 (dunque circa il 6% di schede nulle per vari motivi). Al mattino però, erano diventate 760’000, tutte straordinariamente valide. In tutto sessantamila schede in più!

E sono solo tre episodi. E’ verosimile che ce ne siano altri. Ora, facciamo due conti Van der Bellen ha battuto Hofer per 8500 preferenze sospette a Linz, 700 nel collegio di Waidhofen e se ne potrebbero ipotizzare 20mila dei miracolosi 60mila voti in più per corrispondenza ( considerando 2/3 al verde, 1/3 a Hofer). E fanno 29’200 voti non chiari in più per il candidato ecologista. Che alla fine ha vinto con 31mila schede di scarto.

Vuoi vedere che in realtà gli austriaci hanno eletto un altro presidente, quello che ufficialmente ha perso? Cose inimmaginabili in un Paese europeo, in una democrazia matura consolidata, eppure i dati suggeriscono un’altra verità. Decisamente inquietante.

FONTE http://blog.ilgiornale.it/foa/2016/05/26/brogli-in-austria-leggete-questi-dati-qualcosa-davvero-non-torna/

Il campo dei santi

Non c’è che da rallegrarsi che la nostra Marina sia riuscita a salvare altri 500 migranti naufragati al largo delle coste libiche quando il loro barcone si è rovesciato. Aiutare chi è in pericolo è la legge del mare, ed è una legge nobile e giusta.C’è, tuttavia,un problema:e qui non ci troviamo di fronte a naufraghi “normali”, come potrebbero essere quelli di un peschereccio o di un mercantile, che una volta portati a terra se ne ritornano a casa propria. Qui abbiamo a che fare con naufraghi “volontari”, cioè con persone che si imbarcano scientemente su natanti non in grado di compiere la traversata dalla Libia alle coste italiane, nella certezza che comunque saranno ripescati da qualche nave che incrocia nella zona proprio a questo scopo (unità navali italiane, di Frontex, perfino di organizzazioni umanitarie di vario tipo) e portati a destinazione. E’ vero che, purtroppo, l’operazione non riesce sempre, e che nel corso degli anni centinaia di persone, soprattutto donne e bambini che sono i più deboli, hanno trovato la morte. Ma i “disperati” si imbarcano egualmente anche se vedono che il natante loro destinato non è in grado di tenere il mare, perché le probabilità di farcela sono molto maggiori di quelle di finire in fondo al mare.
Noi troviamo questo meccanismo assurdo: dispiegando una flotta per soccorrere i naufraghi, non solo incoraggiamo un maggior numero di migranti a tentare l’avventura, ma facciamo anche il gioco dei cosiddetti “mercanti di carne umana”, che possono vendere a caro prezzo “passaggi” anche su natanti sgangherati su cui, senza la garanzia del recupero, ben pochi accetterebbero di salire. Se riteniamo – come Papa Francesco e molti altri – che tutti coloro che vogliono venire in Europa debbano essere accolti, sarebbe meglio offrire loro, naturalmente non a tutti insieme, ma a ragionevoli scaglioni – un viaggio sicuro su un traghetto: eviteremmo le tante vittime che il mare continua a fare, taglieremmo fuori gli scafisti e risparmieremmo anche un sacco di soldi. Se invece siamo del parere che bisogna accogliere soltanto i veri profughi, e non i migranti economici, facciamo sapere a tutto il mondo che la selezione verrà fatta addirittura a bordo delle navi soccorritrici e che chi non ha diritto d’asilo non verrà portato in Italia, ma rispedito subito indietro. Fare la selezione in terraferma è una pura illusione, perché chi sa di essere abusivo non aspetterà di essere esaminato e alla prima occasione si aggiungerà alle centinaia di migliaia di clandestini. E anche se accetterà di aspettare l’esito della sua pratica, mantenuto con 35 euro al giorno che al suo Paese rappresentano una fortuna, difficilmente sarà poi rimpatriato.
Ma torniamo con i piedi per terrea, cioè alla situazione attuale, destinata a peggiorare nel corso dell’estate: i gommoni continueranno a partire, i (spesso solo potenziali) naufraghi continueranno a essere salvati e sbarcati nei porti della Sicilia, della Calabria e della Puglia, dove in base agli accordi europei dovranno essere registrati e presi in carico dalle nostre autorità. Anche se il governo tende a minimizzare, prima della fine dell’anno potrebbero essere mezzo milione o anche più. Ma – e qui sta la questione cruciale – perchè dobbiamo prenderceli tutti noi, quando una buona parte aspira in realtà a raggiungere altri Paesi della UE? Perché, anche se vengono ripescati da una nave norvegese o inglese, li scaricano comunque nei nostri porti? Perché, questa è la risposta, così vogliono gli accordi di Dublino, che da mesi cerchiamo, senza risultati tangibili, di modificare. Al contrario, per evitare che chi sbarca in Italia possa dirigersi al Nord, si minaccia di erigere barriere come quelle che hanno chiuso la cosiddetta rotta balcanica. Allora, prendiamo il coraggio a quattro mani e denunciamoli, questi accordi, rifiutando di applicarli fino a quando l’Europa non si deciderà a varare una politica che non lasci tutto il peso della migrazione sulla nostre spalle, come è capitato alla povera Grecia lo scorso anno con i tragici risultati che abbiamo visto in TV.

FONTE http://blog.ilgiornale.it/caputo/2016/05/25/ma-perche-tutti-i-migranti-finiscono-da-noi/

da leggere https://www.amazon.it/campo-dei-santi-Jean-Raspail/dp/8898672586/ref=sr_1_1?s=books&ie=UTF8&qid=1464248710&sr=1-1&keywords=il+campo+dei+santi (ostracizzato in quanto contrario al progetto massonico europeo)

 

24/05/2016

Arabia Saudita epicentro del cancro islamista

Avete presente l’iniziativa del collettivo artistico PixelHELPER? Una settimana fa hanno proiettato sull’ambasciata saudita a Berlino la bandiera nera del Califfato corredata dalla scritta “Banca dell’Isis”. Un gesto certamente forte e che ha anche una base di verità.

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I miliziani dello Stato islamico infatti si trovano già in Europa perché aiutati dai nostri “alleati”, Arabia Saudita in testa. Anzi: sono proprio i nostri “alleati” a plasmare i jihadisti. 


Per approfondire: Bosnia, nel mirino dell’Isis


Lo spiega bene un’inchiesta pubblicata dal New York TimesIn Kosovo i terroristi si moltiplicano grazie ai fondi sauditi. Nel 1999 i caccia della Nato bombardano i serbi, aiutando la regione kosovara ad ottenere l’indipendenza. È a questo punto che subentrano i sauditi, facendo cadere fondi a pioggia su questa terra appena liberata. L’obiettivo è quello di diffondere il wahhabismo, forma radicale dell’islam e “religione di Stato” in Arabia Saudita. Pensate per esempio che in Kosovo, su 800 moschee, 240 sono state costruite dopo la guerra dai sauditi proprio con lo scopo di diffondere il loro credo.

Come riporta il New York Times, dal Kosovo sono partiti 314 volontari per il jihad. Tra questi ce ne sarebbero almeno due che si sono fatti saltare in aria, 44 donne e 28 bambini. Secondo quanto affermato dagli investigatori kosovari, “sono stati radicalizzati e reclutati da imam estremisti e da associazioni finanziate dall’Arabia Saudita a da altri Stati del Golfo”. L’obiettivo di questi finanziamenti è quello di andare a reclutare – come spiega il capo dell’antiterrorismo kosovaro Fatos Makolli – persone vulnerabili e giovani. Chi, insomma, è facile da plagiare per spedirlo al fronte. Come spiega Fulvio Scaglione in Il patto con il diavolo. Come abbiamo consegnato il Medio Oriente al fondamentalismo e all’Isis, i sauditi hanno speso negli ultimi 70 anni ben 90 miliardi di sterline per propagandare il wahhabismo.


Per approfondire: La figura del predicatore radicale


 I risultati di questa operazione sono stati nefasti e, almeno nel caso degli attentati di Bruxelles, hanno ferito duramente l’Europa. I quartieri islamisti in Belgio che hanno accolto Salah Abdeslam, uno degli attentatori parigini, sono nati grazie ai soldi dell’Arabia Saudita. E lo stesso sta accadendo in Kosovo. Giorno dopo giorno, i sauditi inviano soldi e imam, radicalizzando la popolazione. A novembre 2015, il New York Times definiva l’Arabia Saudita uno Stato islamico che ce l’ha fatta. Un’analisi impeccabile. Ma allora perché continuiamo a collaborare con loro?

FONTE:

About Matteo Carnieletto

Nato a Cantù il 28 febbraio del 1990, entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto assieme ad Andrea Indini “Isis segreto”, “il tuffo fisico di due cronisti dentro la mela

Francesco di Buenos Aires si prende per Francesco d'Assisi

Le dichiarazioni rese da Papa Francesco in Turchia raffigurano una Chiesa cattolica irrimediabilmente persa nel relativismo religioso che la porta a concepire che l'amore per il prossimo, il comandamento nuovo portatoci da Gesù, debba obbligatoriamente tradursi nella legittimazione della religione del prossimo, a prescindere dalla valutazione razionale e critica dei suoi contenuti, incorrendo nell'errore di accomunare e sovrapporre persone e religioni, peccatori e peccato.

Quando il Papa ha giustamente detto «la violenza che cerca una giustificazione religiosa merita la più forte condanna, perché l'Onnipotente è Dio della vita e della pace», dimentica però che il Dio Padre che concepisce gli uomini come figli, che per amore degli uomini si è incarnato in Gesù, il quale ha scelto la croce per redimere l'umanità, non ha nulla a che fare con Allah che considera gli uomini come servi a lui sottomessi, legittimando l'uccisione degli ebrei, dei cristiani, degli apostati, degli infedeli, degli adulteri e degli omosessuali («Instillerò il mio terrore nel cuore degli infedeli; colpiteli sul collo e recidete loro la punta delle dita... I miscredenti avranno il castigo del Fuoco! ... Non siete certo voi che li avete uccisi: è Allah che li ha uccisi» (Sura 8:12-17). Quando il Papa all'interno della Moschea Blu si è messo a pregare in direzione della Mecca congiuntamente con il Gran Mufti, la massima autorità religiosa islamica turca che gli ha descritto la bontà di alcuni versetti coranici, una preghiera che il Papa ha definito una «adorazione silenziosa», affermando due volte «dobbiamo adorare Dio», ha legittimato la moschea come luogo di culto dove si condividerebbe lo stesso Dio e ha legittimato l'islam come religione di pari valenza del cristianesimo.

Perché il Papa non si fida dei propri vescovi che patiscono sulla loro pelle le atrocità dell'islam, come l'arcivescovo di Mosul, Emil Nona, che in un'intervista all' Avvenire del 12 agosto ha detto «l'islam è una religione diversa da tutte le altre religioni», chiarendo che l'ideologia dei terroristi islamici «è la religione islamica stessa: nel Corano ci sono versetti che dicono di uccidere i cristiani, tutti gli altri infedeli», e sostenendo senza mezzi termini che i terroristi islamici «rappresentano la vera visione dell'islam»?

Quando il Papa intervenendo al «Dipartimento islamico per gli Affari religiosi» ha detto «noi, musulmani e cristiani, siamo depositari di inestimabili tesori spirituali, tra i quali riconosciamo elementi di comunanza, pur vissuti secondo le proprie tradizioni: l'adorazione di Dio misericordioso, il riferimento al patriarca Abramo, la preghiera, l'elemosina, il digiuno...», ha reiterato

la tesi del tutto ideologica e infondata delle tre grandi religioni monoteiste, rivelate, abramitiche e del Libro, che di fatto legittima l'islam come religione di pari valore dell'ebraismo e del cristianesimo

e, di conseguenza, finisce per delegittimare il cristianesimo dato che l'islam si concepisce come l'unica vera religione, il sigillo della profezia e il compimento della rivelazione. Così come quando il Papa ha aggiunto che «riconoscere e sviluppare questa comunanza spirituale – attraverso il dialogo interreligioso – ci aiuta anche a promuovere e difendere nella società i valori morali, la pace e la libertà», ha riproposto sia una concezione errata del dialogo, perché concepisce un dialogo tra le religioni mentre il dialogo avviene solo tra le persone e va pertanto contestualizzato nel tempo e nello spazio, sia una visione suicida del dialogo dal momento che il nostro interlocutore, i militanti islamici dediti all'islamizzazione dell'insieme dell'umanità, non riconosce né i valori fondanti della nostra comune umanità né il traguardo della pacifica convivenza tra persone di fedi diverse dall'islam.

Anche quando il Papa ha detto «è fondamentale che i cittadini musulmani, ebrei e cristiani - tanto nelle disposizioni di legge, quanto nella loro effettiva attuazione -, godano dei medesimi diritti e rispettino i medesimi doveri», ci trova assolutamente d'accordo. A condizione che l'assoluta parità di diritti e doveri concerne le persone, ma non le religioni. Perché se questa assoluta parità dovesse tradursi nella legittimazione aprioristica e acritica dell'islam, di Allah, del Corano, di Maometto, della sharia, delle moschee, delle scuole coraniche e dei tribunali sharaitici, significherebbe che la Chiesa ha legittimato il proprio carnefice che, sia che vesta il doppiopetto di Erdogan sia che si celi dietro il cappuccio del boia, non vede l'ora di sottometterci all'islam.

magdicristianoallam.it

 

Du coté de la surmusulmane (Tu lis ça et t'as tout compris)

Myriam B*** est une jeune musulmane comme on aimerait en voir plus souvent : originaire des Quartiers Nord de Marseille, elle a su en sortir, elle est apparemment libérée, mène la vie qu’elle entend, et réussit de brillantes études — elle est présentement en Master de Droit. Vêtue plus ordinairement de mini-jupes et de jeans moulants que de voiles — en fait, elle n’a jamais porté de voile. Maquillée assez pour avoir l’air d’une seconde Nefertiti — une Egyptienne d’avant l’Islam. Ajoutons qu’elle est issue d’une double souche algéro-marocaine, preuve que les frères ennemis peuvent, s’ils le veulent, faire l’amour et pas la guerre. En elle, il y a les traits fins d’une Berbère, et la culture d’une fille formée à l’école de la République — ou plutôt, elle a fait l’effort de sortir de l’enseignement de l’ignorance pour se cultiver réellement.
Je lui ai communiqué mon analyse du livre de Fehti Benslaman dont je parlais la semaine dernière, et elle a bien voulu me faire partager ses réactions de lecture. Qu’elle en soit remerciée.

« Un jour, ma mère m’a surprise en mini-jupe et m’a lancé : « Myriam, tes os sont voués à l’enfer ! » — une malédiction dont l’écho résonne encore en moi.
« Parce qu’à l’inverse du chrétien, il n’y a pas pour le musulman de rédemption intermédiaire. Pas de pardon des offenses — pas ici-bas en tout cas. »

Qu’entendez-vous par « pas de rédemption intermédiaire » ?

« Ce qu’il faut savoir c’est que la culpabilité musulmane est une culpabilité religieuse spécifique — ce n’est pas la culpabilité religieuse que l’on connaît. Lorsqu’un catholique se confesse auprès d’un prêtre, le repentir est une démarche qui implique autrui, elle est hors de soi, autrui (le prêtre) est acteur dans la confession.
« En islam il en est autrement. L’équivalent du prêtre est l’imam, qui n’est présent que comme conseil. Si un musulman avoue ses fautes auprès d’un imam, ce dernier ne pourra que le conseiller de bien agir afin que Dieu lui offre sa miséricorde ; mais il ne pourra pas lui garantir le pardon. Le repentir est une démarche absolument solitaire, elle est en soi, elle n’implique personne d’autre que soi, impactant l’image que l’on a de soi. Dieu n’est pas acteur, il reçoit la demande de pardon mais reste silencieux.
« Alors que le prêtre garantit le pardon, l’imam conseille de s’en remettre à Dieu, un Dieu infiniment silencieux. Deus tacitus !On reste donc coupable à vie ?

« C’est justement cela la nuance : on est dans un doute perpétuel, la certitude d’être coupable en libérerait plus d’un, mais l’on ne sait jamais, on se sent juste coupable parce qu’on ne se sent pas pardonné. La culpabilité chez le musulman est très ancrée et très pesante. Une faute n’est jamais explicitement expiée, puisque c’est après la mort que l’on sait si elle a été pardonnée, et non pendant la vie.
« J’ai d’ailleurs noté, tout au long de mon éducation religieuse, que les péchés sont explicitement définis et sanctionnés. Par exemple si l’on a manqué à son devoir de prière, dans la tombe le musulman sera châtié par l’ange de la mort, qui à l’aide d’une barre de fer le frappera afin qu’il traverse sept couches de terre pour remonter ensuite et subir cela jusqu’au jour du jugement. Mais concernant les bonnes œuvres, la plupart restent indéfinissables, le mal est défini comme le « chirk » (association), ou encore « zina » (adultère), mais quand il s’agit du bien on parle le plus souvent de « bonnes œuvres » sans plus de détails, et la récompense est abstraite. Le paradis, et je reprends le sens que donne le Coran, est un endroit « inimaginable ». La sanction entre dans une logique humaine, la récompense elle, reste inintelligible… La sanction vient à l’esprit bien plus concrètement que la récompense.
« Partant de là, un musulman ne se sentira jamais assez bon (Benslama dit bien qu’il rencontre des musulmans qui ont honte et ne se sentent pas assez musulmans) et être le meilleur des musulmans est une quête vouée à l’échec. D’ailleurs nombre de musulmans qualifient leur religion de très difficile, allez savoir pourquoi… Ainsi, lorsque l’on n’a pas la réponse chez Dieu, on va la chercher soi-même, et donc chez autrui.
« Autrui me dira que je suis un bon musulman, et s’il le fait c’est que Dieu le pense aussi. Mais pour qu’autrui sache que je suis un bon musulman, il me faudra cacher mes fautes sous le voile d’une burqa (interrogez-les femmes portant la burqa et voyez si elles ne se sentent pas fautives de leurs actes passés), sous le nombre de mes prières à la mosquée, et finalement sous ce que je pense d’autrui.
« Si je dis qu’autrui est mauvais musulman, c’est que je suis bon musulman. Si je me bats contre les non-musulmans, c’est que je suis bon musulman. Et, in fine, si je meurs en tuant les non-musulmans, c’est que Dieu lui-même saura que je suis bon musulman. Dieu ! Vois comme je suis bon musulman, je meurs pour toi !
« Sans compter que se balader en burqa, c’est dire aux autres filles qu’on est supérieure — c’est un sentiment de supériorité bon marché ! Plus facile de se voiler en jugeant les autres que de réussir des concours et décrocher un job intéressant ! »

Mince ! Pas moyen de s’en sortir ici et maintenant !

« Si ! Il existe en islam une immunité totale et le pardon absolu de Dieu — si une femme enceinte meurt pendant un crash d’avion, si on meurt en allant à la Mecque, ou encore si on meurt en martyr — et plus généralement, toutes les morts vraiment violentes, à condition bien sûr de faire partie de la communauté musulmane, l’oumma.
« Camus a célébré dans l’islam l’intelligence du musulman à donner un sens à la vie. Mais ce n’est pas seulement le désespoir de la vie qui mène à la mort, c’est aussi ce qui se passe durant la période sombre : c’est dans le désespoir que les jeunes fautent, volent, se droguent, et finissent par se sentir coupables. Les laveurs de cervelles instrumentaliseront cela. Un ami musulman libéré lui aussi, Wilem B…, banquier d’affaires, a voulu me mettre face à une contradiction. Et ceux qui n’ont pas été éduqués dans la culpabilité ? Ceux qui se sont récemment convertis et qui pourtant font la majorité des terroristes ?
« Eh bien, c’est encore une preuve que la culpabilité est le noyau de tout ! D’abord, rien ne prouve que le ou la jeune converti(e) n’a pas été élevé(e) dans la culpabilité — l’islam n’en a pas le monopole, même si chez lui c’est un principe. Et puis ce que l’on ne sait pas forcément, c’est que tout fidèle d’une autre religion qui se convertit à l’islam est bien mieux accueilli par Dieu que n’importe quel musulman. Les musulmans ont tous un immense respect envers les néo-convertis, comme des jésuites assistant à l’émanation d’une grâce divine. Par exemple un chrétien à qui l’on dit que jusque là il a été dans le faux, dans le mauvais chemin, que s’il se convertit il pourra nettoyer son mauvais sang, celui-là n’est-il pas ré-éduqué à ce même sentiment de culpabilité ? On lui dit « tu as été coupable mais tu ne le seras plus, et en mourant pour Dieu, tu te laveras de tous tes péchés », car cette religion, ou ce qu’on en fait, trouve son moteur dans la culpabilité.
« La mort du djihadiste n’est pas qu’héroïque : C’est une manière de se punir consciemment ou inconsciemment en mourant pour Dieu. Je me sens coupable, si coupable que pour que Dieu me tende un paradis, il n’y a que la mort. »

On n’en sort donc pas ?

« L’islam est aussi une religion qui oblige à la vie familiale, afin de perpétuer la communauté musulmane, on dit que 50% de nos bonnes œuvres doivent être réalisées dans le cadre de la famille. Les jeunes qui se lancent dans le djihad passent tous par l’étape mariage. Il est amusant de noter en particulier dans les cités que les jeunes qui ne se lancent pas dans le djihad choisissent de se marier, c’est un phénomène extrêmement récent, qu’on ne remarque pas, et qui a tout de suite suivi le nouveau terrorisme. Il y a de plus en plus de mariages de jeunes délinquants : par exemple mes voisins ont respectivement 18 et 19 ans, ils sont mariés avec un enfant, et ils sont délinquants. Ce n’est pas qu’une mode, c’est aussi la culpabilité, la honte de ne pas être parmi les élus, les meilleurs, ceux qui partent en guerre sainte. Explicite ou enfouie, et sous toutes ses formes, la culpabilité reste là. C’est le ver rongeur, le ver irréfutable, comme dit le poète. »

Bravo pour Valéry !

« Alors vous comprendrez qu’une religion qui entretient le sentiment de culpabilité pour n’importe quelle faute commise, n’offrant dans son sens littéral que certaines morts spectaculaires pour expier ses fautes avec certitude, n’est pas une religion comme les autres. C’est une religion dont l’exégèse doit se faire avec grande prudence, car elle peut dériver très facilement. Un jeune qui va se péter la cervelle en plein Bataclan est un jeune chez qui on a cultivé cette culpabilité, c’est l’irrationalité de ce sentiment qui rationalise la mort elle-même.
« Parce que la culpabilité musulmane est le centre de tout, c’est une culpabilité qui poursuit n’importe quel musulman, jusqu’à sa mort. L’extrémisme ou plutôt les jeunes que l’on pousse aux actes extrêmes ont le sentiment auto-suggéré d’être les meilleurs des musulmans — des surmusulmans, comme dit Benslama. Ils annihilent leur culpabilité en s’annihilant eux-mêmes.

« Voilà ce que je pense vraiment de l’islamisme, et voilà pourquoi l’Education nationale qui veut lutter contre la radicalisation n’a vraiment rien compris : il faut aider les jeunes à se débarrasser de ce sentiment de sa culpabilité, ou empêcher qu’elle puisse s’ancrer. »

 

 

Concrètement, comment s’exprime ce sentiment de culpabilité ?

« Les jeunes se sentent coupables car ils ont baigné dans une éducation à la culpabilité sur le long terme ou sur le court terme — and so do I ! Et cette culpabilité induite a entraîné en moi certains comportements que je ne peux réfréner. Et toute agnostique que je sois, ou à peu près, je reste dans cette idéologie de la faute — et de la punition. Il m’arrive de me dire que je suis vouée à l’enfer parce que je ne prie pas, que je ne porte pas le voile, chaque faute est considérée comme grave. Et si j’avais été faible et ignorante, j’aurais voulu me péter la cervelle au Bataclan pour me faire pardonner de ce qui soi-disant est une terrible faute, j’aurais pensé que ma vie entière est une terrible faute, j’aurais voulu me racheter en payant le seul prix possible.
« Etudier le djihadisme implique l’analyse de la pratique religieuse en détail. Par exemple, il n’y a pas que les sentiments de désespoir, d’ennui, de volonté héroïque ou de culpabilité, qui sont à revoir, mais aussi la compétition qui vous lie intrinsèquement à tous les autres, parce que l’islam pousse à la compétition. Vous entendrez volontiers une femme dire à une autre : « Tu as de la chance, tu es partie à la Mecque, alors que moi non ». C’est poussé à un point tel, que toujours dans cette logique de parade compétitive, le ramadan lui-même est exploité. Ce doit être un mois de jeûne, prônant l’humilité, la modestie et la générosité. Mais ce n’est pas le cas : tous les hommes sortiront leur robe de prière pour marcher dans les rues, en groupe la plupart du temps. Et le soir venu, c’est à celui qui aura prié le plus souvent, « le taraouih » à la mosquée jusqu’à minuit passé : vois comme je lutte contre le sommeil et la fatigue physique d’une journée de jeûne !
« Je suis sûre que presque personne ne ferait le taraouih, s’il fallait le faire seul, dans son salon, mais c’est une prière communautaire… Par volonté de se crédibiliser auprès de tous et par là de Dieu, on crée des degrés à la religiosité du ramadan lui-même.
« Il existe d’ailleurs, toujours dans le thème de la compétition, une hiérarchie dans les paradis, il n’y a pas le paradis mais les paradis, le plus haut niveau est dédié aux prophètes les plus rapprochés de Dieu, et aux martyrs, le plus bas niveau est attribué aux simples musulmans. Voilà pourquoi la notion de « meilleur des musulmans » ou de « surmusulman » est exploitée par Benslama : il y a une véritable compétitivité dans cette religion. Etre avec les prophètes au septième niveau, c’est finalement être comme les prophètes : imaginez ce que cela représente pour un musulman honteux de chacune de ses irrémédiables fautes, à quel prix y accéder ?
« Je suis alors guerrier, j’ai plusieurs femmes et je vis au Moyen-Orient : je suis djihadiste, et si je ne suis pas un prophète, je suis dans tous les cas un martyr. C’est con, hein ? »

Propos recueillis par Jean-Paul Brighelli

SOURCE http://blog.causeur.fr/bonnetdane/

12/05/2016

Sadiq Khan, l'opportuniste

Dans nos gazettes bien-pensantes habituelles, Le Monde, Libération, sur les ondes de Radio France, on ne cache pas sa joie : « Alleluïa ! Londres, la plus grande métropole européenne vient d’élire un maire musulman ! Gloire à Sadiq Khan, fils de chauffeur de bus pakistanais qui vient de mettre la pâtée au rejeton de milliardaire juif Goldsmith dans la plus hype des villes-monde d’Occident ! »

Le storytelling se déploie en XXL racontant la saga d’un petit « paki » escaladant à la force de son intellect et de son talent l’échelle sociale britannique, musulman pratiquant, certes, mais si modéré et propre sur lui qu’on lui donnerait le bon Dieu anglican sans confession. Au Monde, l’éditorialiste de service profite même de l’occasion pour mettre la honte à la classe politique française : « En France, quelques places sont réservées, au gouvernement, aux éléments les plus prometteurs des milieux issus de l’immigration. Mais les places éligibles dans les listes des partis, au moment du scrutin, restent généralement inaccessibles. C’est une erreur stratégique, que nous payons cher ». Ben voyons ! Comme si, par exemple, Madame Rachida Dati avait dû ramer comme une malade pendant des années sur les marchés du 7ème arrondissement de Paris pour se faire élire maire du plus bourge des arrondissements de la capitale !

La réalité est toute autre. Sadiq Khan est un pur produit du communautarisme territorial modèle britannique. Celui qui passe par le Parti travailliste et un système électoral (scrutin majoritaire à un tour) qui assigne à résidence politique les candidats issus de l’immigration aux circonscriptions où le poids démographique de leurs coreligionnaires issus de leur ethnie détermine le résultat de l’élection.

Sadiq Khan, avocat spécialisé dans la défense des droits de l’homme, en fait défenseur des extrémistes musulmans de tous poils œuvrant dans le Londonistan de naguère, conseiller juridique du Muslim Council of Britain, a longtemps fricoté avec les islamistes radicaux avant de prendre ses distances (apparentes) avec eux une fois son objectif atteint : la conquête en 2004, de la circonscription électorale de Tooting, au sud de Londres.

J’ai, pour des raisons familiales, fréquenté Tooting, où l’un de mes enfants expat’, mais pas trader, avait planté sa tente avec sa famille car c’était un des rares endroits de Londres encore abordable pour son budget de l’époque. Hormis les petites maisons en briques rappelant le passé de banlieue ouvrière du quartier, on se serait cru à Lahore ou à Karachi, tant le spectacle de la rue, des commerces révélait la ghettoïsation d’un secteur d’où les « natives » piliers de pubs rouquins ou mémères en bigoudis avaient déguerpi depuis belle lurette. De fil en aiguille, Tooting est devenu un fief réservé à un élu pakistanais, adoubé par les mosquées locales. Sadiq Khan, qui faisait l’éloge public de Youssef Al-Qaradawi, le prédicateur extrémiste et antisémite de Al Jazeera, dûment tamponné « halal », par les autorités religieuses du secteur, l’emporta haut la main à sa première tentative d’entrée à la chambre des Communes.

En revanche, il avait quelque souci à se faire pour sa réélection en 2010, puisqu’il était comptable, devant ses mandants, des prises de positions de son patron, Tony Blair, dans la guerre d’Irak, comme fidèle allié de Georges W. Bush, et de sa politique de lutte antiterroriste. Il avait bien, au lendemain des attentats de Londres de 2005, pris ses distances avec Blair, en imputant au soutien de Downing Street à la campagne israélienne contre le Hezbollah libanais la propension des djhadistes britanniques à assassiner leurs concitoyens, mais l’élection s’annonçait tout de même périlleuse. Son principal concurrent était en effet un autre anglo-pakistanais, Nasser Butt, candidat du Parti libéral-démocrate, qui pouvait, lui, se targuer que sa formation politique avait voté contre l’engagement britannique dans la guerre d’Irak, une position largement partagée par les électeurs de Tooting… Seulement voilà : Nasser Butt était membre de la secte musulmane des Ahmadistes, une obédience quiétiste fondée en 1889 dans l’Inde coloniale, prônant la tolérance et le djihad par la plume et non pas par l’épée, dont les quelques dix millions de fidèles sont répartis à travers le monde, majoritairement en Inde et au Pakistan. Persécutés après l’indépendance par les majorités sunnites, beaucoup d’entre eux émigrent, au Royaume-Uni, aux Etats-Unis et au Canada. L’Organisation de la conférence islamique les excommunie, et les interdit de pèlerinage à La Mecque. Monsieur Sadiq Khan, le grand libéral aujourd’hui porté au pinacle, a joué à fond, en 2010, la carte religieuse pour être réélu, traitant son concurrent d’hérétique indigne de recevoir les suffrages des vrais croyants. Et ça marche.

Son ascension au sein du Labour, dans le sillage de Jeremy Corbyn, lui ouvre d’autres perspectives : fini Tooting et les odeurs de curry, à lui Londres, la City, les fastes du Lord Maire et pourquoi pas, demain, Downing Street, une fois dégagé le vieux gaucho de la tête du Parti travailliste ? Le discours change, on vote pour le mariage gay, on caresse les juifs dans le sens du poil (virage à 180° sur le boycott des produits israéliens), et vogue la galère. Tous les gogos de la planète bobo européenne lui font une standing ovation, les chaisières de la gauche morale se pâment. Seul, un vieux ronchon dans mon genre se remémore la ritournelle de Jacques Lanzmann, magnifiquement interprétée par Jacques Dutronc, « L’opportuniste » :

« Je n’ai pas peur des profiteurs
Ni même des agitateurs
Je fais confiance aux électeurs
Et j’en profite pour faire mon beurre

Il y en a qui conteste
Qui revendique et qui proteste
Moi je ne fais qu’un seul geste
Je retourne ma veste
Je retourne ma veste
Toujours du bon côté »

 

 
 
 
 
 

09/05/2016

Marsiglia, la piu' francese delle città arabo musulmane

http://www.corriere.it/video-articoli/2016/04/20/marsigli...

18/04/2016

Chi sostiene il business dello Stato Islamico ?

Lo Stato Islamico ha perso il 30% dei profitti derivanti dalla vendita di petrolio rispetto allo scorso anno. È quanto emerge da uno studio dell’IHS Conflict Monitor, il think tank statunitense specializzato nell’analisi di conflitti.

“A metà del 2015 le entrate mensili complessive dello Stato Islamico erano di circa 80 milioni di dollari” – scrive Ludovico Carlino, analista del gruppo di ricerca IHS – “A partire dal marzo 2016, invece, le entrate mensili dello Stato Islamico sono scese a 56 milioni di dollari”. E il merito sarebbe dei bombardamenti russi e della coalizione internazionale sui pozzi petroliferi controllati dai fondamentalisti. Il che ha portato anche alla perdita del 22% del territorio controllato da Isis.

Una perdita consistente quella subita dallo Stato Islamico, che avrebbe ridotto la produzione quotidiana di petrolio da 33 a 21 mila barili, considerando che – secondo gli analisti – il 43% delle entrate dell’Isis proviene dall’estrazione e dalla vendita di “oro nero”. E per recuperare la ricchezza perduta, lo Stato Islamico ha deciso di imporre ulteriori tributi. A chi? Ai camionisti, ad esempio, che devono pagare ingenti pedaggi per attraversare le strade controllate dai fondamentalisti. Ma le tasse sono aumentate anche per coloro che devono installare nuove apparecchiature tecnologiche, come le antenne. Per non parlare di chi non conosce bene (secondo i dettami wahhabiti) il Corano: per lo Stato Islamico questi soggetti devono pagare multe salate,  in caso contrario a loro toccheranno punizioni corporali.

Certo, lo Stato Islamico sta perdendo capacità economica interna. E lo dimostra uno studio del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, diretto dal sottosegretario David Cohen, secondo il quale nel 2014 la prima fonte di guadagno di Isis era la vendita di petrolio, commercializzato sottobanco attraverso la Turchia, il Kurdistan e la Giordania. Lo studio dimostrò,  inoltre, che all’epoca il Califfato controllava 350 raffinerie in Iraq e il 60% dei pozzi petroliferi della Siria. Oggi non è più così. Ma non si è riusciti ancora a fare del tutto chiarezza  riguardo i finanziamenti che da altri Paesi arrivano al Califfato. Su tutti i Paesi del Golfo, i quali continuerebbero a sostenere al-Baghdadi soprattutto attraverso le sadaqat, ingenti donazioni di individui od organizzazioni religiose indirizzate al Califfato.

Infatti nel 2014 il Washington Institute for Near East Policy riuscì a tracciare alcuni dei movimenti di denaro che dal Golfo finivano a Raqqa. E da quello studio emerse che Arabia Saudita, Qatar e Kuwait fossero i primi tre Paesi per finanziamenti al Califfato. E sempre secondo il Dipartimento di Stato americano tra il 2012 e il 2014 queste donazioni hanno rimpinguato le casse dello Stato Islamico per circa 40 milioni di dollari.

E il fatto che l’Arabia Saudita sia il primo sostenitore di Isis non sorprende. Tra Riad e Raqqa c’è una profonda intesa religiosa che ha origine nel XVIII secolo. Non bisogna dimenticarsi, infatti, che l’autorità politica di casa Sa’ud in Arabia si basa sull’accordo (non scritto) stipulato nel 1744 tra l’emiro  ‘Abd al-‘Aziz ibn Muhammad ibn Sa’ud ed  Muḥammad ibn ʿAbd al-Wahhāb, fondatore del wahhabismo, secondo il quale la comunità di fedeli wahhabiti avrebbe sostenuto l’ascesa al potere dei Sa’ud, solo nel caso in cui questi avessero diffuso e difeso la dottrina wahhabita.

 

FONTE  www.occhidellaguerra.it

11/04/2016

Une Femme qui connait et nomme les "choses"

https://youtu.be/6y_zB5Qmt2E

"Ne pas nommer les choses c'est ajouter au malheur du monde" Albert CAMUS

Nos respects et remerciements Madame, vous faites partie d'une minorité invisible et opprimée!!

 

06/04/2016

Perché i sunniti odiano Assad?

Perché la Siria è sotto attacco e tanti musulmani odiano Assad e gli alawiti?

Gli alawiti hanno dato vita a quella che alcuni studiosi definiscono una setta, gli imam tradizionalisti non considerano neppure islam e in realtà risulta una religione iniziatica, dai risvolti e riti segreti, noti solo agli iniziati – non dissimile dal culto praticato dai Drusi, stanziati nel Golan e in Libano.

Il conflitto in Siria scoppia nel 2011 con una serie di dimostrazioni popolari, un conflitto interno, apparentemente una guerra civile, fra il governo del Partito Ba’ath e le forze di opposizione. I dimostranti, o almeno una parte di essi, chiedevano che il presidente Bashar Assad presentasse le sue dimissioni. Il padre, Afez Assad, leader del Ba’ath, fu eletto presidente nel 1971. Buona parte dei sostenitori del presidente Assad è sciita mentre la maggioranza dei suoi oppositori è sunnita.

Nell’aprile del 2011 l’Esercito Siriano ricevette l’ordine di sparare sui dimostranti, con tutta probabilità già infiltrati da potenze straniere. Da qui iniziarono una serie di battaglie che erano il prologo di una aperta ribellione.

Le forze di opposizione sono costituite parzialmente da militari che hanno lasciato l’Esercito Siriano. Nel novembre entra in gioco il fronte islamico di Al Nusra, seguito nel 2013 da Hezbollah che si schiera con Assad e l’Esercito regolare. Russia e Iran supportano militarmente il governo di Assad. Iniziano battaglie fra sciiti e sunniti. Nel 2014 ISIS sostiene il conflitto con una forza militare imponente, USA e Francia iniziano dei bombardamenti inconcludenti e supportano militarmente l’opposizione. Nel tardo 2015 la Russia entra in forze nel conflitto e spazza il territorio governato da Isis portando le truppe di Assad a riconquistare una parte della nazione.

Il Qatar e l’Arabia saudita, però, sostengono i ribelli, l’Iran sostiene Assad.
I due Paesi arabi, però, sono Sunniti, e Salafiti, mentre l’Iran è sciita. Ma gli Assad sono alawiti, e questo rende le cose molto, molto complicate.

Il termine Alawi è quello usato dagli alawiti per definire se stessi, ma fino al 1920 erano conosciuti come Nusayri o Ansari. Il cambio di nome fu imposto dalla Francia al tempo del suo mandato, a seguito degli accordi Sykes-Picot sulla spartizione dell’Impero Ottomano, e ha una sua ragione precisa: mentre Nusayri accentua fortemente le differenze con l’Islam, il termine Alawi sottolinea invece la vicinanza religiosa con Alì, il genero del profeta Maometto, enfatizzando così le similitudini dell’alawismo con l’islam, in una chiara manovra propagandistica tesa a mantenere per quanto possibile un pacifico equilibrio fra le sette musulmane presenti nella Siria governata dai francesi che non cercavano certo di crearsi problemi etnici.

Gli Alawiti attualmente sono all’incirca un milione e trecentomila fedeli, dei quali un milione in Siria, dove rappresentano il 12% della popolazione. tre quarti degli Alawiti siriani vivono nella regione di Latakia, nel nord ovest della Siria, al confine con la Turchia.
La dottrina Alawi risale al nono secolo D.C. e deriva dai Duodecimani, un filone sciita che rigetta la dottrina tradizionale dell’islam, e pertanto vengono considerati non autentici musulmani dagli altri credenti, in special modo dai sunniti.
Alcune dottrine Alawi si ritengono addirittura derivare dal paganesimo fenicio, dalle teorie di Mazdak, riformatore persiano del 500 D.C., e dal manicheismo. L’attinenza più forte e se vogliamo, sconvolgente, vi è col cristianesimo. Le cerimonie religiose alawi vedono l’uso del pane e del vino, infatti bere vino ha un ruolo sacro nella fede Alawi in quanto esso rappresenta Dio, e così la comunione con lui dei fedeli. Questa religione vede in Alì, il Quarto Califfo, l’incarnazione della divinità, esattamente come nel cristianesimo Gesù.

Anche nella religione Alawita vi è una trinità, rappresentata da Maometto, Alì e Salman Al Farsi, schiavo persiano liberato dal profeta, illuminato seguace già cristiano dello stesso. Ancora più curioso è il fatto che gli Alawiti celebrino molte delle festività cristiane, come il Natale di Gesù, l’anno nuovo, l’Epifania, la Pasqua, la Pentecoste e la Domenica delle Palme.
Addirittura onorano molti santi cristiani: Santa Caterina, Santa Barbara, San Giorgio, San Giovanni il Battista, San Giovanni Crisostomo e Santa Maria Maddalena.

I corrispondenti nomi in arabo di Gabriele, Giovanni, Matteo, Caterina ed Elena sono comunemente utilizzati. Gli Alawiti tendono ad avere atteggiamenti amichevoli più coi cristiani che coi musulmani. Alcuni studiosi, e in particolare i missionari, hanno sostenuto che essi combinano le pratiche cristiane con quelle sciite, dando luogo a una religione fortemente affine al cristianesimo.
La dottrina Alawi viene mantenuta segreta non solo ai non appartenenti alla setta, ma addirittura agli stessi Alawiti. Al contrario dll’islam che non prevede un tramite fra la divinità e il fedele, nell’alawismo è permesso solo ai maschi nati da due genitori alawiti di apprendere le dottrine religiose, mantenute scrupolosamente segreten e non hanno luoghi di culto.
Quando ritenuti affidabili, generalmente fra i sedici e i venti anni di età, vengono progressivamente iniziati a i riti segreti, la pena della morte per chi li rivela.

Le donne generalmente compiono i lavori che gli uomini ritengono impropri per un maschio, e vengono per questo ammirate. Non sono tenute a portare il velo e hanno maggior libertà di movimento rispetto alle musulmane.
I sunniti hanno dimostrato nel corso dei secoli il loro disprezzo per gli Alawiti, che sono stati più volte massacrati. Di contro gli alawiti pregano per la distruzione dei sunniti.
Essi hanno rappresentato la parte più povera e incolta della popolazione siriana, perchè sempre tenuti al margine, nelle campagne e isolati sulle aspre montagne del nord, che hanno rappresentato per loro una prigione volontaria, che se li ha protetti, li ha anche isolati dal progresso. Questo almeno fino agli anni ’40, dopo che avevano trovato nei francesi, e nel loro mandato di governo, un rifugio sicuro. Infatti fra il 1920 e io 1936 è esitito uno Stato Alawita nel nord della Siria, una soluzione che potrebbe essere tuttora proponibile per il futuro, pacificato, del Paese mediorientale.

FONTE:www.occhidellaguerra.it