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11/01/2008

L' islam est tolérant et nous allons vous le prouver!

7559e9108de0542a227e7a4a5adc9186.gifUn hebdomadaire catholique malaisien a été enjoint d’abandonner l’utilisation de « Allah », comme condition de renouvellement de son permis d’éditer.

Les chrétiens de langue arabe utilisent généralement le mot « Allah » pour Dieu - à l’exception notable des Coptes. Mais ils ne font pas allusion, bien sûr, au dieu du coran mais au Dieu de la Bible.

Si les deux groupes étaient en Malaisie, cependant, ce serait une autre histoire. Les porte-parole des musulmans en Occident nous disent sans cesse que les musulmans, les juifs, les chrétiens et tous les cultes vénèrent le même Dieu - en accord avec le verset 29 :46 du coran. Et quand certains font observer que la vision musulmane de Dieu est tout à fait différente de la vision chrétienne ou juive de Dieu, et qu’il est donc difficile de soutenir que tous adorent le même Dieu, ils sont calomniés et rejetés. Mais cette décision en Malaisie indique que ce n’est pas eux qui sont à l’origine de ces idées ; elles sont soutenues par de nombreux musulmans.

The Associated Press :

KUALA LUMPUR, Malaisie : Un hebdomadaire catholique en Malaisie doit abandonner l’utilisation du mot « Allah » dans son édition en langue malaise s’il veut que son permis d’édition soit renouvelé, a déclaré vendredi un haut fonctionnaire du gouvernement.

« The Herald, l’organe de l’Église catholique en Malaisie, a traduit le mot Dieu comme « Allah », mais c’est erroné car Allah fait référence au dieu des musulmans », a déclaré Din Che Yusoff, un haut fonctionnaire de l’unité de contrôle des publications du Ministère de la Sécurité intérieure.

« Les chrétiens ne peuvent pas utiliser le mot Allah, qui ne s’applique qu’aux musulmans. Allah est seulement pour le dieu musulman. Il s’agit d’un plan pour confondre le peuple musulman, » a dit Che Din à Associated Press.

«  L’hebdomadaire devrait plutôt utiliser le mot « Tuhan" qui est le terme générique pour Dieu », dit-il

N.D.L.R.

Certains prétendront qu’il s’agit probablement « encore » de « savants » musulmans « égarés » et soi disant « minoritaires » qui ne comprennent pas l’islam ou qui ont pris l’islam en otage...

Lien via DhimmiWatch, Malaysian Catholic weekly told to drop use of ’Allah’ in order to renew publishing permit, le 22 décembre 2007

Politica e mafia: il binomio che domina l'Italia meridionale

513397afa72cabade8111b3a9971f9b0.jpgIntervista al procuratore nazionale antimafia aggiunto Lucio Di Pietro sui legami tra il riciclaggio e lo smaltimento dei rifiuti e le mafie

«Buttiamoci sui rifiuti: trasi munnizza e n'iesci oro». Questa celebre intercettazione di un mafioso, facilmente traducibile (Entra immondizia, esce oro), dà l'esatta misura dell'interesse della criminalità mafiosa per il business dei rifiuti. Un affare che ha preso piede, come spiega Lucio Di Pietro, procuratore nazionale antimafia aggiunto, proprio per il forte guadagno e il basso rischio, con la complicità di una legislazione soft. «Fino al 2001 - spiega il procuratore Lucio Di Pietro - si rischiavano solo qualche mese di arresto e pochi spiccioli di ammenda, visto che il traffico illecito di rifiuti era trattato come contravvenzione e non come delitto. Dunque la criminalità organizzata, che si inserisce dovunque c'è profumo di affari, trovò convenientissimo entrare nel business, tanto che alcuni clan abbandonarono il remunerativo traffico di stupefacenti per fare il loro ingresso in quello dei rifiuti». Basso rischio, soldi a palate.

Poi a Napoli fu aperto il primo procedimento contestando anche il 416-bis del Codice penale, associazione di tipo mafioso, che prevede la reclusione da 5 a 10 anni, da 7 a 12 per chi dirige l'associazione. Subito dopo i procuratori delle 26 procure distrettuali hanno iniziato a lavorare a rete, con processi impostati dal '95 su imputazioni per associazione mafiosa oltre che per traffico illecito di rifiuti e contatti continui per individuare i collegamenti fra le società. Nel 2001, poi, il Parlamento ha adottato una legge con cui il reato di gestione illecita dei rifiuti è diventato delitto e non più contravvenzione, con pene fino a 6 anni. Ora si punta all'inserimento nel codice penale del reato di associazione a delinquere finalizzata al crimine ambientale.

Accanto alle famiglie mafiose, il mondo dei rifiuti nel corso degli anni si popola sempre più di prestanome, gente senza precedenti, che agisce per conto della mafia. Un universo, descritto dal procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso nel corso di una audizione alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti, fatto di imprese legali, rispettabili uomini d'affari, funzionari pubblici, operatori del settore dei rifiuti, mediatori, faccendieri, tecnici di laboratorio (per le analisi) e imprenditori del settore dei trasporti. Gente inserita nel mercato legale dei rifiuti che imbocca la via dell'illegalità, della simulazione, della corruzione, dell'evasione sistematica di ogni regola. «Molto spesso è stato accertato - dice Lucio Di Pietro - che i camorristi imprenditori si offrivano alle ditte del Nord di smaltire i rifiuti speciali e tossico-nocivi a prezzi stracciati, smaltendoli poi illegalmente nei territori campani».

I metodi per gestire i rifiuti pericolosi sono tanto fantasiosi, quanto criminali: i rifiuti vengono abbandonati in zone poco frequentate o nascoste, trasformandole in discariche a cielo aperto, scaricati in mare o nei corsi d'acqua, mischiati ai rifiuti urbani o spalmati sui terreni come fertilizzanti. Con tanta gente che, inconsapevolmente, si è trovata a vivere in zone ad alto inquinamento, con gravi rischi per la salute. «Le indagini hanno accertato - spiega Lucio Di Pietro - che sono stati sversati fanghi da depurazione su terreni agricoli, poi tombati, inquinando anche le falde acquifere. Terreni nei quali i proprietari erano conniventi o costretti. Nessuna attenzione al fatto che i prodotti agricoli o il foraggio poteva così essere inquinato. Sembravano campi ben concimati. Negli anni, insomma, la Campania è diventata una sorta di pattumiera gestita dalle organizzazioni criminali tramite prestanomi, prevalentemente impegnati in società di trasporto, smaltimento, stoccaggio». Poi il business nel dorato mercato dei rifiuti urbani, il che spiega perché oggi la camorra si insinua nella protesta degli onesti cittadini. «Da una parte l'interesse a strumentalizzare la protesta - spiega Di Pietro - dall'altra il tentativo di inserirsi nel nuovo business dell'eliminazione delle tonnellate di mondezza dalle strade. Addirittura nei siti tombati la camorra è già impegnata nell'inserirsi nelle bonifiche. Questa è la camorra finanziaria, la camorra imprenditrice, dove sotto prestanome operano una serie di società in tutti i settori».

La Campania risulta, secondo i dati dello scorso anno, la prima Regione in Italia in relazione alle infrazioni accertate e ai sequestri operati. Delle 42 inchieste aperte in base all'articolo 53-bis del decreto Ronchi, ben 14 riguardano la Campania e sono dirette dalle procure di Napoli, Nola e Santa Maria Capua Vetere. È la provincia di Caserta quella sulla quale si concentra di più l'interesse della camorra. Accanto a questo c'è un grosso mercato internazionale dei rifiuti, che viaggiano in Europa e solcano le acque con navi e container che partono di soppiatto per Hong Kong e distribuiscono veleni in Cina. Le bolle riportano voci tranquillizzanti, come «materia prima». Le imprese oneste e le discariche pagano per lo smaltimento di un container con 15 tonnellate di rifiuti pericolosi circa 60mila euro, mentre per lo stesso quantitativo lo smaltimento illegale d'Oriente chiede 5mila euro. Secondo Legambiente più del 90% dei rifiuti che arrivano in Cina finisce nel circuito illegale dei piccoli villaggi della costa, dove smantellamento e recupero dei materiali avviene senza precauzioni in garage, per strada o negli orti. Non è difficile immaginare le conseguenze per la salute e per l'ambiente e la portata dell'affare per i clan.

BUROCRAZIA EUROPEA E DELINQUENZA POLITICA ORGANIZZATA ITALICA:  Una montagna di soldi letteralmente buttati. Per l'emergenza rifiuti sono stati circa 251 i milioni di euro dell'Unione Europea a disposizione della Regione Campania dal 1994 fino al 2006. Fondi in gran parte stanziati, impegnati e spesi (se li sono mangiati la camorra ed i criminopoliticanti che fingono di amministrare questa valle di lacrime NDLR). I risultati sono sotto gli occhi di tutti, oggi più che mai.
L'ultima misura, il Por (programma operativo regionale) 2000-2006, ne stabilisce 170. Alla Regione precisano che sono stati tutti già programmati e stanziati; ne sono stati spesi 110, anzi 110.414.294,52, con tanto di certificazione aggiornata al 31 dicembre 2007 e presentata a Bruxelles. Poi, entro quest'anno saranno liquidati i 60 milioni rimanenti. «Non sarà perso un solo euro di fondi comunitari», assicurano alla Regione Campania.

Ma all'insospettabile efficienza finanziaria si contrappone il disastro di linee raccolta, impianti, discariche e condizioni ambientali ormai da Terzo Mondo. Sorge allora un dubbio inquietante: che uso è stato fatto, di queste risorse? Ci sarà mai qualcuno chiamato a rispondere di finanziamenti diventati virtuali, se non surreali? In realtà somme sostanziose, in passato, sono andate anche perse. Il contributo Ue del piano precedente (1994-1999) alla fine ne ha previsti 81, dai 200 iniziali: una riduzione a causa dalla mancata approvazione del piano regionale rifiuti e il conseguente commissariamento. Lo stesso istituto del commissario, pesantemente censurato dalla Corte dei Conti, ha causato perdita di fondi europei. Nell'ultima relazione dei magistrati Antonio Mezzera e Renzo Liberati, aggiornata al 2005, si stigmatizza il fatto che su otto bandi di gara per la realizzazione di impianti di compostaggio o di valorizzazione dei rifiuti provenienti da raccolte differenziate, solo uno è stato alla fine sottoscritto. Mentre le altre sette gare sono saltate anche per i ritardi e le lungaggini della gestione commissariale, che hanno comportato la «perdita, per decorso dei termini, dell'utilizzazione dei fondi comunitari». Va peraltro sottolineato che dal 2000 a oggi il flusso di fondi comunitari destinati al problema rifiuti è stato anche limitato perché la Commissione europea ha posto, come condizione per il loro utilizzo, la fine del commissariamento.

Il danno e la beffa, insomma. La Ue ha ridotto comprensibilmente i fondi, poiché la presenza di un commissario permette l'assegnazione di contratti senza rispettare le regole europee sugli appalti. Una deroga che Bruxelles ritiene giustificabile per situazioni d'emergenza molto limitate nel tempo, ma dal 2004 ha deciso di non accettare più durante programmi di spesa pluriennale. Poi, è toccato alla Corte dei Conti far notare che questo tanto indispensabile commissario ai rifiuti non è servito proprio a un bel niente
Oggi, per il periodo 2007- 2013 la Regione Campania dispone di un miliardo di fondi Ue da destinare a progetti ambientali, non necessariamente solo per rifiuti, che potrebbero diventare due miliardi con il co-finanziamento nazionale. Per l'utilizzo di questi fondi nel campo dei rifiuti, Bruxelles è per ora orientata a mantenere la condizione della fine del commissariamento e della messa in atto di un piano rifiuti efficiente. Con questo scenario, è il minimo che possa chiedere.

www.ilsole24ore.com

Corso Secondigliano, a Napoli, è uno stradone di un paio di chilometri. I sacchetti di rifiuti e ogni genere di scarto invadono in alcuni punti anche la carreggiata stradale fino a creare strettoie che generano file interminabili di auto. Pochi metri più avanti, subito dopo il Quadrivio di Arzano, superato il Rione Berlingieri e lasciato alle spalle anche il supercarcere che costituisce il panorama per gli abitanti dei palazzoni degradati della 167, c'è Scampia, il palcoscenico di una della faide sanguinarie più efferate degli ultimi anni, quella tra il clan camorristico Di Lauro e i famigerati Scissionisti (Amato-Pagano). Qui quasi per incanto, le strade, a cominciare dalla tristemente nota via Bakù – luogo spesso scelto per regolamenti di conti tra cosche – sono quasi del tutto prive di sacchetti e rifiuti maleodoranti. Quasi del tutto, perché poi, se si imbocca una stradina senza neppure nome, prospiciente proprio via Bakù, c'è il distretto 6 dell'Asia, l'azienda che si occupa della raccolta dei rifiuti a Napoli. E lo spettacolo è desolante, triste, mortificante: cumuli di rifiuti lasciati a macerare da cui spunta una bandiera dell'Italia.
Casualità o strategia precisa? Pulizia occasionale oppure organizzazione di alcuni clan che sfruttano anche questa emergenza di Napoli per affermare, rispetto ai cittadini, la propria supremazia rispetto allo Stato? Forse tutte e due. Difficile però dare una risposta netta. Men che meno averne di ufficiali. Ma per paradosso, in questa storia di ordinaria emergenza che sta mettendo in ginocchio Napoli e la Campania agli occhi del mondo, accade che andando in giro per il capoluogo e il suo hinterland - anche nei giorni caldissimi della crisi – si scoprono spesso queste "isole ecologiche" che per caso o specificamente coincidono con aree dove la presenza criminale è più forte.
Non si tratta di un teorema, non potrebbe esserlo: il caso di Pianura, dove imperano i clan Lago e Mele è emblematico e racconta una storia diversa. Quella di un quartiere per stessa ammissione degli agenti della Digos (a Napoli guidati da Antonio Sbordone), e della Squadra Mobile (capitanati da Vittorio Pisani), praticamente precluso agli uomini delle Forze dell'ordine per giorni interi, ma sommerso da tonnellate di rifiuti prima ancora di essere sito per discarica. Lì semmai, spiegano ancora gli uomini della Digos, gli affiliati dei clan hanno sfruttato l'occasione dell'emergenza per riaffermare la propria supremazia territoriale dopo che per mesi avevano perso "autorevolezza", visto che Pianura era stata al centro di iniziative volte proprio a contrastare un'azione camorristica tipica come quella delle estorsioni.
Certo fa riflettere come in via dell'Epomeo – strada che porta proprio a via della Montagna Spaccata a Pianura, il teatro degli scontri più durui di questi giorni e dove a farla da padrone pare siano i clan Leone e Cutolo che si dividono il predominio nel quartiere Fuorigrotta – i rifiuti non si sono mai ammassati.
Restano dunque troppi i casi in cui l'equazione camorra-pulizia delle strade pare confermata. Altro esempio, il feudo del clan Misso e degli altri Scissionisti (Salvatore e Nicola Torino), il Rione Sanità: pulito all'inverosimile, quasi con strade tirate a lucido. Basta uscire a sud di quel dedalo di viuzze e mercatini, per immettersi sull'importante arteria via Foria: qui, davanti alla stazione del metrò di Piazza Cavour o del Museo Archeologico, i cumuli di rifiuti sono stati addirittura coperti con teloni nel tentativo di celare lo scempio e attenuare i miasmi maleodoranti.
A pochi metri dal Rione Sanità, c'è via Duomo: anche l'immagine della cattedrale, meta continua di turisti e pellegrini, è sfregiata da montagne di rifiuti. Anche scegliendo di percorrere la zona a nord della Sanità, quella della Salita Santa Teresa, il discorso non cambia.
Quasi lindi e pinti – a differenza delle vie del centro come quella Via Medina sede della Questura dove troneggiano sacchetti e scatoloni di ogni genere – anche i vicoletti dei Quartieri Spagnoli: pure nei giorni di massima emergenza, ogni mattina le strade apparivano ripulite: da via San Carlo alle Mortelle a piazzetta Santa Caterina da Siena. In queste aree, la nomenklatura camorristica fotografata da varie indagini, attesta un dominio delle famiglie Russo e Di Biase. Per i tecnici del commissariato ai rifiuti, spiegano, la pulizia delle stradine dei Quartieri Spagnoli è quasi un obbligo: i rifiuti avrebbero completamente bloccato una serie di passaggi che costituiscono viabilità principale per collegare il quartiere collinare del Vomero al centro cittadino.
Resta una domanda: come mai altre strade con conformazione e strategicità simile (vedi il collegamento, per esempio, tra San Martino e il Vomero) sono state lasciate stracolme di rifiuti tanto da impedire la circolazione delle auto per giorni? E che dire della provincia? L'immagine offerta è analoga a quelle della città. A San Sebastiano al Vesuvio (clan Sarno), giusto per esempio, le strade sono immacolate. Non è così a San Giorgio a Cremano dove le tonnellate di rifiuti arrivano fino ai primi piani delle abitazioni.
«A Napoli la camorra viene usata come causa di tutti i mali», commenta scettico il capo della Mobile, Vittorio Pisani. «Ma io penso – aggiunge – che in questa emergenza conti più l'illegalità diffusa che la criminalità organizzata. In questa provincia il 39% della popolazione ha precedenti penali». Il ragionamento degli inquirenti semmai è un altro: la camorra, anche in questa circostanza, continua ad occupare spazi lasciati liberi dalla cattiva amministrazione. Tanto che dalla Procura azzardano un'ipotesi: una sorta di raccolta differenziata. Ma per peso di aree, potentati e clan.

francesco.benucci@ilsole24ore.com

07/01/2008

Misoginia islamica contro libertà occidentale

e3fa4870e453dd3e6e21cda1bc84c73b.jpgRIAD - Altolà di Riad alla presenza di Carla Bruni nella delegazione ufficiale che accompagnerà il presidente francese Nicolas Sarkozy durante la sua visita nel Regno wahabita, il prossimo 13 gennaio. Una fonte diplomatica saudita, che preferisce mantenere l’anonimato per via della «delicatezza» dell’argomento trattato, suggerisce che l’«hyper-president» come ormai viene chiamato in Francia Sarkozy dovrebbe lasciare a casa la sua attuale compagna nel rispetto della tradizione islamica conservatrice del paese ospitante; «per motivi religiosi» dice chiaramente la fonte. In base alla stretta osservanza della sharia, in Arabia Saudita le coppie non sposate e senza legami di parentela non possono appartarsi. Gli occidentali sono tenuti a rispettare le regole in pubblico, e numerosi hotel non accettano coppie non sposate in un’unica stanza. Dall’Eliseo fanno sapere che la composizione della delegazione per Riad non è ancora stata definita anche se diverse fonti lasciano intendere che l’ex top model non abbia in programma di accompagnare Sarkozy in Arabia Saudita.

Il presidente francese è stato criticato da diversi politici egiziani il mese scorso per aver condiviso con la compagna la stessa stanza d’albergo durante le vacanze sul Mar Rosso. E gli analisti fanno osservare che l’Arabia Saudita è un paese molto meno liberale dell’Egitto. Il Journal du Dimanche ha scritto ieri che Sarkozy a dicembre ha chiesto a Carla Bruni di sposarlo, e che le nozze potrebbero tenersi all’inizio di febbraio. L’Eliseo non ha commentato la notizia, ma diversi analisti suggeriscono che la richiesta di matrimonio potrebbe essere un modo per mettere a tacere qualsiasi futura controversia.


www.corriere.it  07 gennaio 2008

29/12/2007

Contrasto tra islam e democrazia

di Magdi Allam:

Ha ragione lo scrittore anglo-pachistano Hanif Kureishi nel sostenere che «l'islam non è compatibile con la democrazia». Certamente non l'islam dei terroristi di Al Qaeda che hanno appena rivendicato l'attentato suicida che ha posto fine alla vita di Benazir Bhutto. Neppure l'islam degli estremisti islamici che praticano il lavaggio di cervello a milioni di giovani nelle moschee e scuole coraniche, indottrinandoli alla guerra santa e inculcando la fede nel «martirio» islamico. Né infine l'islam moderato nella forma ma dittatoriale nella sostanza, sostenuto dall'Occidente solo per la paura che i terroristi e gli estremisti islamici prendano il potere.

Nell'intervista concessa a Francesca Marretta e pubblicata ieri su Liberazione, Kureishi spiega così la sua sfiducia assoluta: «Il Pakistan è stato formato come Stato democratico per i musulmani, ma gli islamisti non sono capaci di essere democratici, perché mettono la religione davanti a tutto. Islam e democrazia non sono compatibili. Per quanto mi riguarda, il Pakistan non doveva essere creato come Stato. Doveva restare parte dell'India. Musharraf resterà al potere perché gli Usa non permetteranno che il Pakistan diventi una sorta di Stato talebano ». I fatti gli danno ragione.

Se consideriamo gli Stati che si autodefiniscono «Repubblica islamica», quali il Pakistan, l'Iran, le Comore, Mauritania e Afghanistan, in aggiunta all'Arabia Saudita che ha adottato il Corano come Costituzione, ebbene nessuno di loro è democratico. Ma più in generale dei 56 Paesi membri dell'Organizzazione per la Conferenza islamica e che hanno una popolazione a maggioranza musulmana, nessuno rispetta pienamente i parametri della democrazia sostanziale così come è concepita e praticata in Occidente.
Nella gran parte dei casi la democrazia è trattata alla stregua di un rito formale, che si esaurisce nella messinscena delle regole del processo elettorale per legittimare il perpetuamento dei regimi autoritari al potere e violando comunque i diritti fondamentali della persona che sono l'essenza della democrazia sostanziale.

La storia moderna e contemporanea ci insegna che i Paesi musulmani si sono avvicinati in qualche modo all'esercizio della democrazia soltanto quando si sono apertamente ispirati a un modello complessivo di società e di civiltà occidentale, con la separazione sostanziale della sfera religiosa da quella secolare. Perché il nodo principale risiede appunto nella pretesa dell'integralismo e dell'estremismo islamico di definire religiosamente ogni minimo dettaglio del vissuto e della quotidianità delle persone. Alla base c'è la realtà di una religione che, in assenza di un unico referente spirituale, sin dai suoi esordi ha fatto leva sull'interpretazione soggettiva del testo sacro producendo una fede che è plurale ma non pluralista, proprio perché non c'è mai stata la democrazia sostanziata dal rispetto verso la moltitudine di comunità, sette, movimenti e partiti che spesso, singolarmente, rivendicano di essere i detentori dell'unico vero islam. Con il risultato che storicamente l'islam è conflittuale al suo interno prima di esserlo con il mondo esterno.
Ecco perché la radice del male è nell'intolleranza endogena all'islam che dal settimo secolo, quando tre dei primi quattro califfi che succedettero a Maometto furono assassinati da loro correligionari, vede a tutt'oggi i musulmani assumere i panni dei carnefici della maggioranza delle vittime musulmane. E proprio quanto sta accadendo in Pakistan conferma la natura aggressiva di questo terrorismo islamico che massacra principalmente gli stessi musulmani e che, contrariamente a un luogo comune diffuso, non è affatto la reazione alla guerra o all'occupazione di una potenza straniera.

Perfino i musulmani praticanti che beneficiano della democrazia in Occidente, compresi gli autoctoni convertiti all'islam, considerano la democrazia come uno strumento utile al radicamento del loro potere con il fine dichiarato o tacito di sostituirla appena possibile con la «shura», cioè un organismo consultivo, dove ai partecipanti è concesso soltanto definire le modalità attuative della sharia, la legge islamica.

Perché all'uomo non è permesso anteporre la propria legge a quella divina. Fede e ragione vengono ritenute incompatibili. E anche se di fatto non esiste una versione unica e condivisa della sharia, tutti gli integralisti e gli estremisti islamici sono però d'accordo nel rifiuto della democrazia sostanziale.

29 dicembre 2007

www.corriere.it

18/12/2007

Chi rinnega la propria identità merita di scomparire

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F.C.B. BARCELLONA: VIA LA CROCE IN NOME DELL'ISLAM

MADRIDVia la croce rossa in campo bianco dall’emblema del Barça: per farsi accettare in Arabia Saudita e in altri paesi islamici, come l'Algeria, maglie, bandiere e gagliardetti della squadra di calcio di Ronaldiñho sono state ritoccate per non «urtare la sensibilità religiosa» dei non pochi tifosi mediorientali. La croce di Sant Jordi, il San Giorgio catalano, protettore degli innamorati, risulta insopportabilmente odiosa agli occhi musulmani, che la ricordano sul petto dei cavalieri crociati dell’inizio del secondo millennio. Intenzionati a diffondere semplicemente la fede blu-granata, i sostenitori del Barcellona football club hanno studiato la questione e pensato che in fondo sarebbe bastato cancellare la trave orizzontale della croce, lasciando un’inoffensiva, per quanto insignificante barra rossa verticale. Lo stemma risulta così diviso tra i colori della squadra, in basso, quelli giallorossi della Catalogna, in alto a destra e un palo rosso in campo bianco, in alto a sinistra.

Il quotidiano di Barcellona, La Vanguardia, ha interpellato i connazionali temporaneamente residenti a Riad e verificato che il sacrificio della croce di San Giorgio, da oltre cent’anni sulle maglie del club, era dolorosamente necessario: “Qui non sono ammesse croci, né quella del Barça, né altre – testimonia Carlos, uno spagnolo che abita in Arabia Saudita -, c’è molto entusiasmo per il calcio e per la Liga Spagnola, e nei negozi sono in vendita maglie ufficiali del Barcellona, con una banda rossa verticale al posto della croce”. I responsabili della società negano che si tratti di maglie ufficiali e parla di contraffazioni, ma non nasconde qualche preoccupazione per l’eventualità che nei sorteggi degli ottavi di finale della Champions, le tocchi affrontare in campo i turchi del Fenerbahçe, con i quali ha già avuto problemi analoghi l’Inter, a Milano il 27 novembre scorso. Le maglie del centenario della squadra di Moratti, bianche con una grande croce rossa sul dorso, provocarono la furia della stampa turca che si chiese come “l’Uefa avesse potuto permettere un simile affronto”.

www.corriere.it

L'IRA DELLA TURCHIA CONTRO L'INTER : "INDOSSA UNA MAGLIA RAZZISTA"

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La maglia dell'Inter finisce sotto accusa. Non la tradizionale casacca a strisce nere e blu, ma quella bianca con la croce rossa sul davanti, adottata in occasione del centenario della società. E che si ispira il simbolo della città di Milano. A sentirsi offeso da quello che definisce "un attentato all'Islam" è un avvocato turco, Barsia Kaska, che ha chiesto alla Uefa di multare la società di Moratti che ha indossato la maglia biancorossa in occasione della partita di Champions contro il Fenerbahce a San Siro lo scorso 27 novembre. "Ricorda il simbolo dei Templari" tuona Kaska.

Una campagna a cui si sono accodati diversi mezzi di informazione turchi che hanno accompagnato la foto della maglia con le immagini del monaci soldati. Un ordine nato dopo la prima crociata del 1096, che arrivò a Gerusalemme e cacciò i musulmani.

"Quella croce ricorda giorni sanguinosi" dice Kaska che ha chiesto alla Uefa e alla Fifa di revocare i tre punti conquistati dall'Inter contro il Fenerbahce, perché avrebbe manifestato "una forma esplicita di superiorità razzista di una religione". Dei sentimenti suscitati dalla maglia interista è testimonianza un editoriale di Mehemt Y.Yilmaz, famoso commentatore turco, dal titolo netto: "Perché lo Uefa lo ha permesso?". Riferendosi appunto alla casacca con la croce.

Per chiarire meglio la questione, però, vale la pena di tornare indietro di qualche anno. Precisamente al 1928 quando l'Fc Internazionale si fuse con l'Unione Sportiva Milanese. La maglia era bianca rossocrociata, e marchiata da un fascio littorio. Una divisa che venne sostituita poco dopo da quella a strisce nerazzurre. In occasione del centenario, l'Inter ha deciso di riproporla. E mai il club di Moratti avrebbe pensato di scatenare un caso calcistico-religioso.
Un juriste de la très laïque et très européenne Turquie a porté plainte contre le club italien de l'Inter de Milan pour cause de port d'un maillot jugé offensant pour l'islam au cours d'un match de Coupe d'Europe contre l'équipe d'Istanbul du Fenerbahce. Le symbole de la ville de Milan, une croix rouge sur fond blanc, était effectivement portée durant un match de la Champions League perdu 3 à 0 par l'équipe turque au stade San Siro de Milan.

L'avocat Baris Kaska a demandé à un tribunal laïque de la très laïque Turquie respectueuse de toutes les religions de sanctionner l'Inter de Milan pour un maillot, qui lui rappelle l'emblème de l'ordre chrétien des Chevaliers du Temple. Ceux-ci sont effectivement liés aux Croisades au cours desquels le monde chrétien essayait de récupérer les territoires conquis par les mahométans. Néanmoins, nous sommes stupéfait que l'avocat turc se souvienne d'une époque où il n'était pas encore né : l'islam à la turc est décidément une drôle de religion puisqu'on semble y croire en la réincarnation.
EXTRAIT DU BLOG DU COCHON HALLAL

12/12/2007

Soudan: un génocide raciste arabo-islamiste

Entretien d'Abdulwahid Al Nour, fondateur du Mouvement de Libération du Soudan (SLM), avec Alexandre del Valle, pour Politique Internationale,

Alexandre Del Valle — M. Al Nour, pouvez-vous nous décrire votre parcours ? Dans quel contexte avez-vous fondé le Mouvement de libération du Soudan (SLM) ?
Abdul Wahid Al-Nour — Je suis né en décembre 1968 au Soudan, dans l’ouest du Darfour, dans une petite ville appelée Zalingei. Ma famille est originaire du djebel Marra, dans la province de Torrah, qui a été la capitale du sultanat foiur. du Darfour. Pour comprendre cette région, il faut savoir que le Darfour a été un sultanat indépendant jusqu’en 1916 (1). Nous avons donc une tradition nationale qui nous est propre. J’ai effectué mes études primaires et secondaires à Zalingei, avant d’intégrer le Lycée d’Al Fasher, puis celui de Madani — la deuxième plus grande ville du Soudan et chef-lieu de la région d’Al Ghazira. En 1990, je me suis inscrit à l’Université de Khartoum, dont j’ai été diplômé en droit en 1995. Je suis devenu avocat en 1996.

En 1992, encore étudiant en droit, j’ai créé le SLM en réaction à l’établissement, par un coup d’État, du gouvernement militaro-islamiste du général Al-Bachir (en juin 1989). Comme vous le savez, son parti, le Front islamique, avait remporté moins de 10 % des suffrages aux élections législatives…
Aujourd’hui, le Front islamique s’appelle Congrès national, mais le fond n’a pas changé : c’est toujours la même dictature sanguinaire qui impose la charia à toute la population et qui finance le terrorisme international.
A. D. V. — Qu’est-ce que le SLM et quels buts se donne-t-il ?
A. A. N. — Le SLM est né à l’université de Khartoum. Il s’est constitué autour de dix-sept fondateurs, et ses membres sont issus de partout au Soudan. Le pays était plongé dans le chaos. Le pouvoir islamiste avait repris la guerre dans le sud contre les chrétiens et les animistes, une guerre terrible qui s’est soldée au total par près de deux millions et demi de victimes ; il avait, aussi, lancé un jihad contre les habitants des monts Noubas, ce qui a abouti à l’extermination de 500 000 de ces malheureux; et la guerre faisait rage dans l’est dans la région du Nil bleu. Même Khartoum n’était pas épargnée par les troubles. Nous nous sommes demandés comment apaiser nos compatriotes, comment réunifier les peuples du Soudan et faire cesser les guerres civiles, comment mettre fin à la haine religieuse et ethnique…
Nous avons voulu reconstruire le pays à partir des idéaux que nous partagions : le respect des droits de l’homme et du droit international ; l’égalité des droits des citoyens ; la promotion de la démocratie chez nous et dans la région ; et la sécularisation de l’État. Nous estimons, en effet, que la nation appartient à tous et la religion à chacun. C’est autour de ce programme que nous avons mobilisé la population dans tout le pays. On oublie souvent, en Occident, que le combat du SLM est d’abord national, qu’il concerne l’ensemble de notre pays. Un pays — je le répète — que terrorise une dictature arabo-islamiste, raciste, génocidaire et intra-colonialiste.
Cette première phase de mobilisation a duré près de dix ans et a été couronnée de succès. Même si notre action se déroulait dans la clandestinité, nous étions populaires et nous comptions de plus en plus de soutiens, spécialement au sein des Université, dernier endroit où les élections étaient encore un tant soit peu libres. La deuxième phase a été la rébellion armée… C’est la répression sauvage et aveugle du gouvernement de Khartoum au Darfour qui nous a amenés à créer la SLA — le mouvement militaire qui représente les forces de défense du SLM, lequel conserve la totalité des centres de décision.
A. D. V. — Vous affirmez que, depuis l’arrivée au pouvoir d’Al-Bachir, le régime de Khartoum a largement soutenu le terrorisme international et l’islamisme salafiste. Est-ce toujours le cas aujourd’hui, alors que l’idéologue islamiste et ex-bras droit d’Al-Bachir, Hassan Al-Tourabi, est tombé en disgrâce il y a déjà quelques années ?
A. A. N. — N’oubliez pas que Carlos s’était réfugié au Soudan, ainsi qu’Oussama Ben Laden en personne s’est réfugié à Khartoum en 1992-1993 et y a résidé jusqu’en 1995. Il est vrai que le chef d’Al-Qaïda était en contact étroit avec Tourabi ; mais il avait été officiellement accueilli au Soudan par le général Al-Bachir lui-même ! Aujourd’hui encore, ce dernier bénéficie des colossaux investissements que Ben Laden a réalisés dans des secteurs clés au Soudan — je pense, entre autres exemples, au complexe industriel Giad, qui construit des camions. On en parle peu car le régime de Khartoum bâillonne les voix libres sur place — n’hésitant pas, le cas échéant, à aller jusqu’à l’assassinat pour faire taire les critiques — et empêche les journalistes étrangers de faire leur travail. Le gouvernement soudanais a bien fini par expulser Oussama Ben Laden en 1995, mais cette décision était due aux pressions internationales et certainement pas à une quelconque évolution idéologique.
A. D. V. — Avez-vous toujours été laïc et anti-islamiste ?
A. A. N. — J’ai été arrêté trente-deux fois par le régime parce que je n’étais pas islamiste ! Je ne l’ai jamais été, ni de près ni de loin. Dès le début de la dictature arabo-islamiste, je me suis opposé avec énergie à Al-Bachir et à Tourabi, à l’époque unis en un duo infernal. Le SLM refuse catégoriquement que notre pays soit une base du terrorisme islamiste international.
A. D. V. — Pouvez vous chiffrer vos effectifs ? Que représentez-vous démographiquement, politiquement et militairement ?
A. A. N. — Nous représentons les deux tiers de la population du Soudan. Illustration de notre influence : cette année, nous avons remporté les élections à l’Université de Khartoum. Or, comme je viens de vous le dire, les universités sont le seul endroit du pays où les élections sont encore libres… Nous avons des bureaux partout dans le pays, aussi bien dans les camps de réfugiés du Darfour qu’à Khartoum même (où nos représentations sont clandestines, bien sûr).
Concernant le volet militaire, je vous rappelle qu’après l’accord de cessez-le-feu de N’djamena signé en avril 2004 nous nous sommes engagés à ne pas utiliser la violence. Nous n’avons jamais violé ce cessez-le-feu. C’est pourquoi il ne serait pas opportun de parler de l’état de nos forces ou de nos plans militaires. Non seulement nous ne tenons pas à en informer Khartoum, mais nous avons pris des engagements envers la communauté internationale. Nous nous devons de respecter les accords que nous avons signés. Malheureusement, le gouvernement de Khartoum, lui, ne respecte aucun de ses propres engagements.
A. D. V. — Pardonnez-moi d’être direct mais, les accords internationaux ne vous profitant pas, pourquoi respecter un cessez-le-feu que vos ennemis violent ? N’avez-vous pas le devoir moral de réagir par tous les moyens au génocide en cours ?
A. A. N. — Le gouvernement tue des milliers de personnes chez nous via des attaques aériennes terribles sur nos villages et même sur les camps de déplacés. Hélas, nous ne pouvons pas grand chose contre les hélicoptères de combat, les MIG ou contre les avions civils russes Antonov transformés en bombardiers… Même les avions que le régime d’Al-Bachir a récemment achetés à la Chine ont servi à nous bombarder. J’ai solennellement demandé au gouvernement chinois de ne pas vendre d’armes et d’avions au gouvernement de Khartoum. La situation est dramatique car, faute d’aides financières importantes et d’armes efficaces, nous ne pouvons pas faire face à nos agresseurs. Naturellement, il en irait tout autrement si nous étions équipés… Car nous avons des hommes en grand nombre sur tout le territoire soudanais.
A. D. V. — Combien êtes-vous précisément ? Quelle est votre représentativité au Darfour et dans le Sud en général ? Vous n’avez pas répondu à cette question…
A. A. N. — Nous sommes le mouvement le plus représentatif au Darfour et dans tout le Soudan. Dans les camps du SLM — je ne parle donc pas des camps de réfugiés, qui n’ont rien à voir —, dans nos garnisons, nous avons plusieurs milliers d’hommes prêts, aguerris et mobilisés. Je répète que nous sommes implantés partout ; mais, pour des raisons évidentes, je ne peux pas vous dire combien ni où nous sommes exactement… Ce que je peux vous certifier, en revanche, c’est que nous sommes prêts à déployer des centaines de milliers de combattants en cas de besoin. Mais comme nous continuons de respecter le cessez-le feu, nous n’en faisons rien pour l’instant — d’autant que, comme je viens de l’expliquer, aussi longtemps que nous ne disposerons pas des armes adéquates, les choses en resteront là.
A. D. V. — Vous avez mentionné vos nombreuses arrestations. Êtes-vous allé en prison ?
A. A. N. — Oui. J’ai été emprisonné une première fois en 2001, parce que je voulais un Soudan démocratique et laïque. Le régime ne m’a jamais pardonné de réclamer la sécularisation. J’ai donc été arrêté pour mes seules idées démocratiques et laïques : à l’époque, je n’avais pas pris les armes. Je suis resté deux mois en prison. Je peux dire que j’ai eu de la chance : les autorités ont cru que je ne représentais pas grand-chose et m’ont libéré. Elles l’ont vite regretté ! Car à peine libéré, j’ai créé secrètement une faction militaire du mouvement : la SLA (Sudan Liberation Army), dans le djebel Marra, avec des gens d’horizons fort différents. Après la création de la SLA, en juillet 2002, j’ai été arrêté une seconde fois, précisément pour avoir fondé cette faction armée. Je fus incarcéré à Zalingei, durant 37 jours, puis à Nyala, pendant 23 jours. Mais depuis ma prison, j’ai pu transmettre à nos agents l’ordre de mener des opérations à Toor, près du djebel Marra. Le gouvernement — persuadé que je n’étais pas le vrai chef de la SLA puisqu’elle effectuait de nouvelles opérations pendant mon incarcération ! — finit par me libérer. La baraka ! Ensuite, je me suis réfugié dans le djebel Marra. C’est alors que Khartoum a réalisé que j’étais bel et bien le chef à la fois du SLM et de la SLA… mais c’était trop tard !
A. D. V. — Pourquoi avoir choisi comme refuge et base de votre mouvement le djebel Marra ?
A. A. N. — Parce qu’il s’agit d’une aire montagneuse. Au départ, j’ai créé la branche militaire avec très peu d’armes ; par surcroît, pour des raisons de sécurité et de fiabilité, j’ai commencé par recruter exclusivement des hommes issus de mon ethnie d’origine. Par la suite, la SLA a pris de l’ampleur. Le djebel Marra est, en quelque sorte, une zone naturelle de défense. J’y ai mes propres hommes, qui me sont parfaitement fidèles ; j’ai été leur avocat et leur fils avant de devenir leur chef politique et militaire. Et puis, dans ce fief musulman, noir et, surtout, modéré du Darfour, où le pouvoir central ne s’aventure pas, nous disposions déjà d’une base militante ancienne, mobilisée depuis plus de dix ans. C’est seulement ensuite que je suis allé à Dar Zaghawa, une autre région du Darfour.
A. D. V. — Pouvez-vous nous en dire plus sur la particularité de votre ethnie et sur les ethnies au Soudan en général ?
A. A. N. — Je suis Four : c’est-à-dire que je suis issu de l’ethnie la plus importante à la fois au Soudan et au Darfour. Les Fours constituent au moins 60 % de la population du Darfour et à peu près 32 % de celle du Soudan. Il existe trois principales ethnies au Soudan : les Fours, les Zaghawas et les Massalits. Bien sûr, les ethnies sont une réalité dont il faut tenir compte ; mais sachez que je m’élève contre le fait de raisonner politiquement en termes de tribus et d’ethnies. Je considère les Soudanais comme des égaux, quels que soient leur sexe, leur couleur de peau, leur religion, leurs traditions culturelles ou la région où ils résident. Les catégoriser en tribus revient à diviser cette nation soudanaise que j’aspire à reconstituer. J’insiste : à mes yeux, tous les Soudanais sont des citoyens égaux en droits. En tout cas, il devrait en aller ainsi, comme c’est le cas en France et dans tous les pays laïcs.
A. D. V. — Quelle est votre vision de la question religieuse au Soudan ?
A. A. N. — Le Soudan est un pays multi-religieux. Les musulmans ne sont pas circonscrits à une seule zone mais répartis entre le Darfour, le Nord, l’Est et même, un peu, le Sud; les Chrétiens sont principalement établis dans le Sud, dans les Monts Nouba (Ouest) et dans le Kordofan (entre le Nil et le Darfour)… Dans ces deux dernières régions, il y a aussi de nombreuses tribus animistes qui ont été massacrées par le pouvoir de Khartoum…
Le Soudan est une mosaïque de peuples. L’islam n’est pas la religion de tous et tous les musulmans ne veulent pas d’un islam intégriste. Le régime de Khartoum joue sur l’arabité et sur l’islam, mais il est plus islamiste et arabo-expansionniste qu’autre chose. Je considère que sa politique relève d’un « colonialisme intérieur » puisqu’il ambitionne de nettoyer ethniquement et religieusement le pays, de l’épurer des « mauvais » musulmans non-arabes et des non-musulmans noirs… d’ailleurs il installe sur nos terres des tribus arabes, surtout originaire du Niger.
A. D. V. — Quelle est l’ampleur des dégâts sur le plan humanitaire ?
A. A. N. — Selon les chiffres de l’ONU, il y avait en 2004 au moins 2,5 millions de réfugiés et de déplacés dans des camps, et 200 000 morts. Depuis, personne ne sait combien il y a eu de morts supplémentaires, mais j’estime que le chiffre de 2004 a au moins doublé. De plus, personne ne parle des « in between », ces gens qui n’ont plus de villages, dont les champs ont été brûlés, qui n’ont plus de biens mais qui ne veulent pas vivre dans les camps car ces camps sont régulièrement attaqués par les janjawid : ces malheureux s’installent n’importe où sur les pistes, de préférence dans nos zones. Ils sont près d’un million et demi ! Hélas, comme personne ne parle d’eux, ils n’ont accès à aucune aide humanitaire. Pis encore : le gouvernement soudanais a installé sur nos terres des nomades arabes (au moins 130 000), venus pour la plupart du Niger. C’est inacceptable ! Nous nous battrons jusqu’au bout pour reprendre nos terres.
Imaginez la vie dans les camps, les enfants désœuvrés, pas d’écoles, pas de travail, pas d’avenir… Tout ça pour quoi ? Il n’y a pas de guerre au Darfour, il y a seulement un gouvernement qui massacre sa propre population !
A. D. V. — Pourquoi parle-t-on seulement du Darfour et pas de l’ensemble du Soudan musulman, animiste et chrétien ?
A. A. N. — La crise apparente et dramatique est aujourd’hui au Darfour. Des crimes contre l’humanité y sont commis. Comme vous le savez, la Cour pénale internationale a mis en examen deux hauts dirigeants (2). Évidemment, ils n’ont pas été extradés vers La Haye. Bien au contraire, même : l’un d’eux est devenu ministre des Affaires humanitaires ! Pour le reste, la guerre au Sud a duré vingt ans et fait 2,5 millions de morts dans l’indifférence, et les Dinka (3) ont été décimés dans un jihad. Enfin, il existe aujourd’hui une forte opposition à l’est, dans la région du Nil Bleu et dans le Nord.
Tout comme cette crise n’est pas uniquement celle du Darfour, nous ne sommes pas exclusivement un mouvement darfourien, mais un mouvement politique national qui lutte pour un Soudan démocratique, fédéral, libéral et laïque.
A. D. V. — Comment faut-il interpréter ce qui se passe au Darfour ? S’agit-il de massacres inter-tribaux ou bien d’un véritable génocide arabo-islamiste planifié par la junte de Khartoum ?
A. A. N. — Le gouvernement de Khartoum instrumentalise les conflits inter-tribaux. C’est une guerre arabo-islamiste, comme vous dites. Je vais répondre très clairement à votre question : on assiste bien, actuellement, à la poursuite d’un génocide, pas seulement au Darfour, mais également contre les populations chrétiennes et animistes dans le sud. Voilà déjà quinze ans que le monde entier assiste à ces tueries, impassible. Soit dit en passant, nous sommes particulièrement attristés de ne pas entendre s’élever de voix africaines — à l’exception de celle de Desmond Tutu.
Pour parvenir à ses fins, ce gouvernement a poursuivi une guerre effroyable au Sud, où plus de deux millions de personnes ont déjà été assassinées dans la quasi indifférence générale, puis dans les Monts Nouba. Les Noubas animistes ne sont que 250 000 aujourd’hui ; or leur nombre s’élevait à trois millions avant 1989. Au moins 500 000 d’entre eux ont été massacrés en 1992. Le gouvernement a mené un jihad officiel dans le Sud et dans les Monts Nouba, puis dans la région du Nil Bleu où d’autres animistes — au moins 200 000 personnes — ont été sauvagement assassinés.
À présent, le gouvernement génocidaire de Khartoum se tourne vers nous, qui sommes musulmans. Pour deux raisons : parce que nous sommes noirs et que nous avons osé rappeler que nous étions abandonnés par le pouvoir central. En effet, il n’y a presque pas de routes, d’hôpitaux et d’écoles au Darfour. En réponse à nos légitimes requêtes, le gouvernement islamiste bombarde nos villages et nos camps de réfugiés. Pour réaliser ses sinistres projets génocidaires, Khartoum a créé les tristement célèbres milices d’assassins Janjawid qui tuent, violent et pillent. Les hommes sont assassinés, les enfants emportés en esclavage ! Les champs et les villages sont brûlés. Ce sont des villageois qu’on assassine systématiquement. Il s’agit donc bien d’un génocide.
Au Darfour, le bilan oscille désormais entre 300 et 400 000 victimes. Je rappelle, en passant, que ce phénomène Janjawid n’a rien de nouveau : avant eux, à la fin des années 1980, une autre milice nomade arabo-islamiste, les Marahil, avait été chargée de tuer tous les non-musulmans animistes et chrétiens du Soudan, nos frères. Pour résumer : le Darfour n’est que la partie émergée et médiatisée d’un génocide qui est cours dans tout le pays.
A. D. V. — Qui sont vos alliés dans votre lutte ?
A. A. N. — Notre principal allié est le SPLM (Mouvement populaire de libération du Soudan), le grand mouvement du Sud. Le SPLM a dû signer en 2005 un accord de paix avec le gouvernement soudanais, avec l’aide de la communauté internationale et sous son contrôle. En vertu de cet accord, le président du SPLM, Salva Kier, ex-adjoint du défunt leader du Sud-Soudan John Garang, est devenu le premier vice-président du pays et président du Sud-Soudan. Mais sa fonction demeure purement symbolique. L’accord n’avait comme objectif que de matérialiser un cessez-le-feu fragile avec Khartoum qui avait besoin d’une paix apparente dans la zone pétrolière du sud.
A. D. V. — C’est donc là un allié étonnant !
A. A. N. — Non, pas vraiment. Les choses sont complexes. Le mouvement politique de M. Salfa Kier, successeur du regretté Garang, je vous l’ai dit, demeure clairement notre allié. Il apparaît peut-être paradoxal qu’il soit également l’allié, même tactique, de Khartoum ; mais je répète que l’accord qu’ils ont passé n’est dû qu’aux pressions internationales. Forcé de composer pour pacifier le Sud, le régime dictatorial a couronné le chef du Sud rebelle, Salfa Kier ; mais il l’a dépourvu de tout pouvoir et lui a cyniquement imposé un partage des richesses pétrolières : 50 % de ces richesses devaient aller à Khartoum et 50 % au Sud-Soudan. Il est clair que Khartoum avait besoin d’un calme relatif dans le Sud pour vendre le pétrole aux Chinois ou aux autres acheteurs potentiels. Il s’agissait donc d’un accord pragmatique et froid, qui ne m’empêche nullement d’entretenir de très bons contacts permanents avec M. Salfa Kier.
Tous ceux qui souhaitent un Soudan laïque, démocratique et libre sont nos alliés — mais je ne peux mentionner que Salfa Kier car il est plus fort que les autres et est aidé par les accords signés à Naivasha, au Kenya, en 2003 — accords parrainés par la communauté internationale. Les individus et groupes qui partagent nos idéaux sont nombreux mais trop éparpillés et vulnérables pour se révéler pour l’instant, vu les rapports de forces. En termes clairs, ils seraient arrêtés ou massacrés si je révélais leurs noms. Disons que notre mouvement est, avec le SPLM, le plus puissant et le mieux capable d’afficher ses idées et ses objectifs.
A. D. V. — Avez-vous toujours un rival en la personne de M. Minni Minawi, jadis à l’origine d’une scission au sein du SLM ?
A. A. N. — On dit que Minni Minaoui est mon adversaire ; la vérité, c’est qu’il a été notre secrétaire général, avant de nous trahir. Il assiste à présent Omar Al-Béchir, l’auteur du génocide contre notre peuple.
A. D. V. — Sur quels alliés de l’extérieur pouvez-vous compter ?
A. A. N. — Sur aucun ! Hélas, aucune nation ne nous aide réellement en ce moment. Je cherche activement des soutiens concrets qui apporteraient à notre révolution l’aide financière, politique et militaire qui nous permettrait réellement de remporter la victoire finale. Car si nous manquons d’armes, nous avons les âmes et les bras ! Le monde doit bien comprendre que la dictature arabo-islamiste au pouvoir à Khartoum menacera un jour le reste de l’Afrique et même de l’Europe, y compris la France qui est si liée à l’Afrique. L’inaction de la communauté internationale et l’indifférence des nations ont déjà coûté très cher. Mais le prix à payer dans le futur sera encore plus élevé. Il faut que les nations libres se réveillent. Pour le moment, au lieu de nous aider, la communauté internationale essaie de nous forcer à signer un accord de « paix » avec les génocidaires de Khartoum… Or cet accord n’est qu’un bout de papier dont Bechir ne respectera pas les termes, comme d’habitude. Le Sud a déjà signé. Pour ma part, je m’y refuse tant qu’un minimum de sécurité n’est pas assuré à mon peuple. Hors de question d’accepter cette trêve qui ne servirait que les bourreaux.
A. D. V. — Qui est contre vous ?
A. A. N. — Presque tout le monde ! Les fondamentalistes islamistes du Soudan bénéficient de l’appui — notamment en armes — de tous les pays arabes et de l’Iran. Savez-vous que la Syrie a proposé de tester ses gaz de combat contre les Darfouris et qu’elle a mis ses pilotes d’avion à la disposition de Khartoum pour nous bombarder ? Notre propre service de renseignements nous a donné des informations très précises à ce sujet.
A. D. V. — En France, vous bénéficiez du soutien du collectif Urgence Darfour (4) — vous avez discuté publiquement avec les dirigeants de ce collectif il y a quelques mois, à la Mutualité. Surtout, vous avez été reçu à plusieurs reprises par Bernard Kouchner. Pensez-vous que Paris va aider le Darfour ?
A. A. N. — À la Mutualité, les candidats à la présidentielle française se sont engagés par écrit à aider mon peuple. Madame Guedj a signé au nom de Nicolas Sarkozy. Richard Rossin et Bernard-Henri Lévy, tous deux membres d’Urgence Darfour, sont même venus nous rencontrer sur le terrain clandestinement. Richard Rossin m’a présenté Bernard Kouchner, un homme auquel je voue une grande admiration pour tout ce qu’il a fait dans le monde. Je suis persuadé que le président Sarkozy et M. Kouchner vont nous aider ; ils ont d’ailleurs déjà commencé à le faire en parlant du Darfour, en exigeant un couloir humanitaire, en activant le vote de sanctions à l’ONU et en soutenant la résolution permettant l’envoi de nouvelles forces supplémentaires ONU-UA.
A. D. V. — Jugez-vous utile l’idée de corridor humanitaire défendue par Bernard Kouchner ?
A. A. N. — Malheureusement, le Soudan a rejeté cette idée, ce qui montre bien son intérêt pour la population qu’il massacre ! Malgré toute sa force de persuasion, Bernard Kouchner n’a pu obtenir qu’un engagement sous conditions pour l’envoi d’une force de protection des populations civiles dont le déploiement, soit dit en passant, avait été voté il y a un an par le Conseil de sécurité (la résolution 1706)…
A. D. V. — Comment expliquer l’indifférence de la communauté internationale ? Pourquoi les aides humanitaires occidentales vont-elles surtout au mouvement darfouri islamiste JEM (Mouvement pour la Justice et l’Égalité) plutôt qu’à vous qui militez en faveur d’un Soudan démocratique et laïc ?
A. A. N. — La communauté internationale n’est pas complètement indifférente : jamais il n’y a eu autant d’aide humanitaire ! On nous assiste comme des enfants, on nous nourrit, on nous apporte de l’eau, on nous soigne… mais on nous laisse nous dessécher dans des camps qui ne sont même pas sécurisés. C’est un cache-misère onéreux au défaut de décision politique ; on nous laisse à la merci des assassins, on ne nous aide pas à nous défendre ! Donnez-nous de quoi nous défendre !
La vérité, c’est que la communauté internationale a peur des Arabes.
Dans notre mouvement, il y a des gens de partout au Soudan, y compris des Arabes qui veulent vivre en paix dans un pays libre. Nous n’avons rien contre les Arabes. Il y a même des tribus arabes qui ont été instrumentalisées par Khartoum, qui le comprennent et veulent désormais nous rejoindre. Nous luttons contre les intégristes qui ont pris le pouvoir par un coup d’État militaire. Pas contre les Arabes en tant que tels, évidemment.
Quant au JEM, il a le même maître à penser que le gouvernement : Hassan al-Tourabi. Ce mouvement est aidé par la Libye, les Émirats arabes unis, l’Arabie saoudite et même, pour des raisons tribales, par le Tchad. Il ne représente pas de force sur le terrain ; avec l’argent du Golfe et de la Libye, il achète des gens dans les camps de réfugiés. Grâce à ses soutiens, il jouit d’une certaine force de persuasion en Occident et, notamment, en Grande-Bretagne. Mais, nous sommes des démocrates et le JEM doit avoir sa place dans des négociations. Nous appelons à un dialogue Darfour-Darfour pour que tous les darfouris puissent être représentés — même si nous estimons qu’aucun parti politique ne devrait être religieux, puisque la religion doit être confinée à la sphère privée.
A. D. V. — Vous parlez souvent des liens de Khartoum avec d’autres régimes arabes anti-noirs. Craignez-vous une contamination islamiste dictatoriale vers les voisins du Soudan ?
A. A. N. — N’oubliez jamais que le génocide des Noirs par les arabo-islamistes est global et concerne plusieurs pays. Par exemple, le gouvernement a souvent fait venir de Mauritanie des miliciens arabes habitués à guerroyer contre les Noirs, que les Arabes assimilent à des esclaves dans toute l’Afrique.
Khartoum est un régime panarabe, nationaliste et islamiste qui veut exporter son idéologie partout en Afrique et dans le monde. C’est pourquoi ses criminels attaquent désormais le Tchad. N’oubliez pas que le gouvernement du Soudan envoie les Janjawid au Tchad et en Centrafrique et qu’il espère rapidement ouvrir un nouveau front au Cameroun !
Je le répète : le danger est énorme, pas uniquement pour nous mais pour toue l’Afrique et aussi pour l’Europe voisine qui n’a aucun intérêt à voir s’étendre le totalitarisme arabo-islamiste barbare dans la région et jusqu’au Maghreb. Car Khartoum exporte son idéologie terroriste dans toute l’Afrique : en Algérie, au Maroc, au Niger, au Mali et en Somalie. Dans tous ces pays, les autorités soudanaises veulent remplacer les pouvoirs en place par des régimes qui partageront leur extrémisme. En Mauritanie, il y a eu un coup d’État, il y a un an ; son auteur, M. Mahamat Ouldfal — qui a, depuis, quitté le pouvoir à la suite d’élections libres — a justifié ce putsch en expliquant qu’il voulait empêcher l’envoi de miliciens arabes (mauritaniens et autres) auprès des Janjawid. Inversement, le gouvernement soudanais a installé chez nous près de 130 000 Arabes venant du Niger, du Centrafrique, de Mauritanie, du Tchad et du Mali : il leur a tout simplement offert les terres du Darfour !
A. D. V. — Vous avez mentionné le Cameroun. Pouvez-vous préciser ce que les Soudanais y mijotent ?
A. A. N. — Ils entraînent déjà des gens dans ce pays, car le Cameroun est le voisin du Tchad, lui-même dirigé par un président d’ethnie Zaghawa, la même ethnie que certaines tribus du Darfour. Or les réfugiés du Darfour — y compris des Zaghawas — qui se sont installés au Tchad sont harcelés et massacrés dans leurs camps par les Janjawid.
On pourrait également parler de la dimension de l’esclavage (5) dans cette guerre barbare. Dans la zone des Monts Nouba et au Darfour, des milliers d’enfants sont kidnappés pour être transformés en esclaves. Ils deviennent des gardiens de bêtes et doivent s’occuper de toutes les tâches quotidiennes. Tout le monde, chez ces nouveaux venus au Darfour, a des esclaves !
A. D. V. — Vous avez refusé de vous rendre aux négociations organisées ce mois de novembre en Libye. Pourquoi ?
A. A. N. — Il était hors de question, pour moi, de négocier alors que les bombardements continuent ! De plus, Tripoli est partie prenante au conflit puisque ce régime soutient celui de Khartoum. Comme la Libye pourrait-elle, dès lors, jouer les intermédiaires ? Cela n’a pas de sens.
A. D. V. — Que peut faire la France ?
A. A. N. — Nous aider à nous organiser. Défendre notre cause auprès des instances européennes et internationales et faire en sorte que les résolutions ne restent pas lettre morte. Faire comprendre aux Chinois que nous n’avons rien contre eux, que nous souhaitons leur aide (6) et qu’ils se sont trompés car, en aidant ce gouvernement, ils n’aident pas le peuple soudanais.
A. D. V. — Que projetez-vous de faire en cas de victoire ?
A. A. N. — Je négocierai avec ceux qui m’auront aidé (ne serait-ce que symboliquement) pour accomplir mon objectif de toujours : établir la paix et la démocratie au Soudan.

(1). Au XVIIIème siècle, le Darfour a été un État indépendant à la structure féodale. En 1799, lors de la campagne d’Égypte, le général Bonaparte reçoit d’Abd-er-Rahman, surnommé el-Rachid ou le Juste, sultan du Darfour, une missive de félicitations pour sa victoire sur les Mamelouks. En 1821, le Khédive d’Égypte, Mehmet Ali, après avoir conquis le royaume de Sennar, défait l’armée du Darfour à la bataille de Bara et s’empare de la province du Kordofan, mais il arrête ses troupes avant le djebel Marra. Le Darfour, dont l’islamisation avait commencé au XVIème,siècle, perd son indépendance en 1916, pendant la Première Guerre mondiale. Son dernier sultan, Ali Dinar, s'allie avec l'Empire ottoman et déclare la guerre à la Grande-Bretagne. Il est défait. Le sultan meurt et le pays est incorporé au Soudan britannique. Le Soudan, pour sa part, n’existe pas en tant qu’État avant 1821. Pour les historiens arabes médiévaux, le Bilad as-Soudan (« Terre des Noirs » (est-ce bien cela?)) est une zone qui s’étend entre le Sénégal et l’Éthiopie d’aujourd’hui. Les frontières du Soudan actuel sont héritées du colonialisme turco-égyptien. Mehmet Ali, d’origine albanaise, s’était proclamé vice-roi d’Égypte après l’évacuation du corps expéditionnaire français. Il fonde la ville de Khartoum au confluent des deux Nils. À partir de là, les hommes de Khartoum partent à l’assaut du Sud, qui est le grand réservoir d’esclaves et d’ivoire exploité jusqu’alors par les Darfouris…
(2) En juin 2007, la Cour pénale internationale met en accusation un ancien ministre de l’Intérieur et un général soudanais en charge de la « formation des Janjawid », devenu depuis ministre des Affaires humanitaires.
(3) Les Dinkas sont un peuple de pasteurs du Sud-Soudan. La plupart d’entre eux sont animistes, et une minorité est chrétienne. Ils ont fait l’objet de massacres à grande échelle perpétrés par l’armée soudanaise lors de la guerre civile des années 1980.
(4) Le Collectif Urgence Darfour a publié en mai 2007 l’ouvrage collectif — auquel participèrent Bernard-Henri Lévy, André Glucksmann, Bernard Kouchner, Richard Rossin et d’autres — Urgence Darfour (éditions Des idées et des hommes).
(5) Le principal facteur de division remonte aux origines de l’islam : les Arabes esclavagistes du nord monopolisent l'appareil d'État et imposent leur loi à de soi-disant concitoyens du sud qu'ils méprisent et qu’ils vendront pendant des siècles comme esclaves aux mieux offrants.
(6) Lorsque la communauté internationale a pris conscience du drame du Darfour, les investissements de Pékin au Soudan étaient déjà considérables. Ils équivalent aujourd’hui à près de 4 milliards de dollars. Avec 40 % des actions de la Greater Nile Petroleum company et une part équivalente dans Petrodar, la société d’État chinoise China National Petroleum Corp possède les plus grands blocs d’actions des deux consortiums pétrolifères soudanais. En 2005, Pékin a acheté la moitié des exportations de pétrole soudanais. Le Soudan représente un dixième des besoins chinois de pétrole, ce qui place Khartoum au troisième rang des fournisseurs d’énergie de Pékin, derrière l’Arabie saoudite et l’Iran. Bien qu’elle ne s’oppose pas aux dernières résolutions internationales, la Chine continue de fournir Khartoum en hélicoptères d’assaut, véhicules blindés et armes légères. Pékin a vendu il y a peu 212 camions militaires à Khartoum. Les pistes aériennes de la China National Petroleum Corp dans le sud du Soudan ont été utilisées par les forces gouvernementales pour mener des raids sur des villages et des hôpitaux. Une enquête récente des Nations unies montre que l’essentiel des armements utilisés pour massacrer les habitants du Darfour étaient d’origine chinoise. La Chine a de son côté, en tant que membre permanent du Conseil de sécurité de l’ONU, utilisé son droit de veto pour ne pas trop voir Khartoum sanctionnée. Les mesures adoptées par l’ONU ont en effet été affaiblies par Pékin. En juillet 2004, la Chine a édulcoré une résolution obligeant le Soudan à poursuivre les Janjawid accusés d’atrocités en supprimant des sanctions contre Khartoum… En avril 2007, la Chine n’a renoncé à mettre son veto à une résolution envisageant des sanctions contre les dirigeants de Khartoum qu’après avoir obtenu la garantie que les plus hauts responsables ne seraient pas visés. Le 16 mai, le Conseil de sécurité a finalement vote une résolution qui oblige le Soudan à accepter une mission de maintien de la Paix de l’ONU. La Chine n’a voté cette résolution qu’après avoir limité et restreint la mission de cette force

 SOURCE : www.alexandredelvalle.com

Tartuffe reduit la France au rang d'une prostituée de luxe

14/01/2007 DISCOURS DE N. SARKOZY AUX ADHERENTS UMP:

...Je veux être le Président de la France des droits de l'homme. Chaque fois qu'une femme est martyrisée dans le monde, la France doit se porter à ses côtés. La France, si les Français me choisissent comme Président, sera aux côtés des infirmières bulgares condamnées à mort en Libye. Elle sera aux côtés de la femme qui risque la lapidation parce qu'elle est soupçonnée d'adultère. Elle sera aux côtés de la persécutée qu'on oblige à porter la burka, aux côtés de la malheureuse qu'on oblige à prendre un mari qu'on lui a choisi, aux côtés de celle à laquelle son frère interdit de se mettre en jupe. Aux côtés de l'enfant que l'on vend ou que l'on exploite.

Je ne crois pas à la "realpolitik" qui fait renoncer à ses valeurs sans gagner des contrats.(effectivement c'est "valeurs" contre "contrats" NDLR).

Je n'accepte pas ce qui se passe en Tchétchénie, au Darfour. (il accepte le sort reservé aux malheureux de l' Arche de Noé NDLR)

Je n'accepte pas le sort que l'on fait aux dissidents dans de nombreux pays.( Chine, Venezuela, Tchad, Lybie...NDLR)

Je n'accepte pas la répression contre les journalistes que l'on veut bâillonner.( Algérie, Syrie, ...NDLR)

Le silence est complice. Je ne veux être le complice d'aucune dictature à travers le monde...

 

SOURCE:  http://sites.univ-provence.fr/veronis/Discours2007/transcript.php?n=Sarkozy&p=2007-01-14

 

COMMENTAIRE: APRES JINTAO, CHAVEZ, DEBY, KHADAFI, A QUI LE TOUR??!! 

11/12/2007

L'islamobouffon donne des leçons aux occidentaux!

b5d58d33c4d051f65e3d2e1728ecf7a4.jpgLe dirigeant libyen Mouammar Kadhafi a interpellé aujourd'hui les pays occidentaux en déclarant qu'"avant de parler des droits de l'homme", il fallait "vérifier" si ces droits étaient accordés aux immigrés, lors d'un discours au siège de l'Unesco à Paris.

Source : AFP

IL A COMMANDITE LE MASSACRE DE LOCKERBIE, CELUI DU DC 10 UTA, IL FINANCE LE TERRORISME ET L'INTEGRISME ISLAMIQUE TOUT AZIMUT ...CECI SE PASSE DE TOUT COMMENTAIRE

10/12/2007

Mahomet et l'orientation sexuelle

3ccf90d6aa7db5ebd67208b0eb4c46c6.jpgIl y a eu les caricatures danoises, le dessin suédois d’un Mahomet à corps de chien, le nounours baptisé du nom du prophète au Soudan. Voici maintenant de quoi rallumer la colère des musulmans : Mahomet en homosexuel ! Finement intitulée « Allah o gaybar », l’exposition, une série de photos d’homosexuels portant des masques à l’effigie du prophète ou de son gendre Ali sera finalement présentée par un musée de Gouda. Il y a quelques jours, un musée de La Haye avait décidé de retirer ces photos, de crainte de s’attirer des représailles. L’artiste iranienne Sooreh Hera a réalisé ces clichés pour témoigner de « l’hypocrisie » du président iranien qui a nié récemment l’existence d’homosexuels dans son pays. Sooreh Hera, qui a demandé l’asile aux Pays-Bas en 2000, déclare avoir reçu des menaces. « Je croyais que je trouverais la liberté d’expression aux Pays-Bas, a-t-elle affirmé. Mais ce n’est pas un pays libre. C’est devenu une dictature islamiste. »

SOURCE DU TEXTE: www.figaro.fr
Rappelons qu' Aïcha, une des nombreuses épouses soumises du beau modèle Mahomet, avait été mariée de force à l'age de...........9 ANS!!!

04/12/2007

Infiltrazione islamica in America Latina: la convergenza totalitaria

04ca0e73dc988954a2d2f25d6d660400.jpgLa fede non ha confini, ma trovare una tribù indios del Venezuela pronta a pregare Allah e imporre il velo alle donne era, un tempo, abbastanza improbabile. Ora non più. Grazie a Hugo Chavez e all’amicizia tra Caracas e Teheran, l’islam sciita ha superato ogni frontiera. Da qualche anno la giungla a nord ovest di Maracaibo è il terreno di cultura di un nuovo esperimento politico-etnico-religioso, la provetta in cui si distillano le schiere «islamico latine» pronte a sfidare gli yankee di Washington. Per creare l’esplosivo miscuglio sono bastati un visionario avventuriero deciso a trasformarsi in un novello comandante Marcos islamico, la messa al bando dei missionari cristiani e la buona volontà di qualche mullah iraniano pronto a sostituirli. Così centinaia di giovani della tribù Wayuu hanno incominciato a recitare il Corano e a tirarsi dietro moglie e fidanzate nascoste da un esotico velo nero.
Le foto dei militanti religiosi e delle loro donne destarono poca attenzione fino al 23 ottobre di un anno fa quando la polizia di Caracas trovò un paio di bombe destinate a esplodere davanti all’ambasciata americana e a quella israeliana. Gli ordigni nascosti in una scatola erano avvolti in volantini firmati da uno sconosciuto Hezbollah Venezuela. Indagando sul fallito attentato la polizia mise le mani su José Miguel Rojas Espinoza, uno studente con in spalla uno zaino pieno di pani d’esplosivo, filo elettrico e inneschi. Ancor prima che Rojas Espinoza confessasse, Hezbollah Venezuela rivendicava l’attentato sul proprio sito internet definendo lo studente «un fratello mujaheddin».
L’avvento delle bombe islamiche era stato annunciato nell’agosto 2006. Mentre in Libano infuriava la guerra tra Israele e l’autentico Partito di Dio, uno sconosciuto comandante Teodoro, nominatosi leader di Hezbollah Venezuela, proclamava l’avvio del jihad in Sudamerica e annunciava l’imminente esplosione di alcune bombe. La storia del «Nasrallah» in miniatura era incominciata alla fine degli anni Novanta tra le capanne di un villaggio Wayuu dove l’allora Teodoro Darnott propagandava la lotta all’America e al capitalismo. Il futuro «comandante Teodoro» capì subito che la sua primigenia fede socialcomunista aveva ben poco futuro e decise di sfruttare al meglio la nascente amicizia tra il presidente Hugo Chavez e la Repubblica islamica. Da lì a mettere al bando dalla zona tutti i missionari cristiani e a invitare al loro posto gli emissari iraniani fu un attimo. Ora grazie alla benedizione di Chavez, i legami con Teheran e la tessera del partito presidenziale, il Comandante Teodoro ha già fatto sapere di voler far germogliare una cellula di Hezbollah in ogni paese latinoamericano.

ESTRATTO DA: www.giornale.it