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19/01/2007

Libertà di espressione in terra d'islam

medium_dink.jpgANKARA (Turchia) - Lo scrittore e giornalista di origine armena Hrant Dink è stato assassinato a colpi d'arma da fuoco. Lo ha riferito la televisione turca.

Dink, 53 anni, era stato condannato nell'ottobre del 2005 da un tribunale di Istanbul a sei mesi di prigione con la condizionale per «insulto all'identità nazionale turca». La pena, come precisa il sito della comunità armena in Italia, era stata poi sospesa. Direttore del giornale bilingue turco-armeno Agos, Dink era finito sotto processo per un articolo del 2004 dedicato al genocidio degli armeni.
Il premier turco Tayyip Erdogan ha affermato che l'omicidio del giornalista «è mirato contro la serenità, la stabilità e il futuro della Turchia e contro la vita democratica del paese e la libertà di opinione». «Non è un caso che le mani assassine abbiano scelto di uccidere Dink - ha aggiunto -, ma il loro piano fallirà». Il capo del governo ha poi espresso le condoglianze alla famiglia Dink a nome suo e dell'esecutivo. Nel frattempo sono partiti per Istanbul il ministro della giustizia Cemil Cicek ed il ministro dell'interno Abdulkadir Aksu per seguire le indagini.
19 gennaio 2007
COMMENTO: Erdogan porge le condoglianze di Caino alla famiglia di Abele

16/01/2007

Sharia tecnologica: divorzio islamico via SMS

ROMA — Il primo dicembre vi avevamo raccontato di uno scandalo sessuale a sfondo poligamico, in cui Lia, curatrice del blog Haramlik, denunciava di essere stata ripudiata da un non meglio specificato «Mullah di noialtri». Ebbene ora siamo in grado di svelarvi il nome: Hamza Roberto Piccardo.
Ed è Lia, professoressa di Letteratura che insegna a Genova, a rivelarlo: «L’ultima cosa che vorrei fare è ritrovarmi ad avere partecipato, con la mansuetudine di un capretto, alla grottesca messa in scena di una scenografia religiosa entro cui ambientare il porno amatoriale più banale del mondo, con Hamza Piccardo e Lia di Haramlik nei titoli di testa, in un tripudio di buon esempio. Ma ti prego. Fare da utile idiota, imbarazzata e silente, ai vitelloni da moschea. Non scherziamo».
Piccardo è il segretario nazionale dell’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia), il personaggio più in vista e più controverso dell’islam in Italia. Sposato civilmente con una marocchina dopo il divorzio dalla prima moglie italiana, dalle quali ha avuto complessivamente 5 figli, lo scorso marzo Piccardo ha contratto un secondo matrimonio con Lia, nella moschea di Verona. Senonché a luglio Piccardo l’ha ripudiata, comunicandole in modo sprezzante la sua brusca e unilaterale decisione tramite un sms.
A quel punto Lia si è ribellata e ha avviato una campagna mediatica all’interno del suo blog, per ottenere il riconoscimento dei suoi diritti di moglie divorziata, nonché per protestare contro «quest’islam semplificato a misura di cretino, questo giochetto pseudo-islamico che va in onda tra i quattro dementi che hanno avuto la ventura di trovarsi nel posto giusto al momento giusto con la religione giusta e che ne hanno fatto una rendita di potere spicciolo da miserabili ».
In una email indirizzata a Piccardo, datata 7 ottobre 2006 e che pubblichiamo per la prima volta, Lia chiarisce le ragioni per cui intende rivelare tutto, proprio tutto, di una esperienza che definisce un «delirio sado-poligamico»: «L’ultimacosa che vorrei fare, nella mia vita, è ritrovarmi omertosa, a coprire col mio partecipativo silenzio una prassi pseudomatrimoniale di bassissima lega, un uso becero della poligamia, una burocrazia religiosa adoperata come mero preservativo spirituale».
La missiva inizia così: «Caro Hamza, come sai, ho esercitato nei tuoi confronti — per diversi mesi e con generosità— l’islamica virtù della misericordia verso le tue debolezze, incoerenze e mancanze. Purtroppo, non mi è più possibile continuare a ostinarmi nel credere nella tua buonafede». Lia sintetizza così la decisione di sposarsi: «Tu ti sei presentato da me come rappresentante e punto di riferimento, in questo Paese, di una religione e di una causa per cui io mi spendevo da anni (...) Arrivi tu e decidi che mi devi urgentemente sposare, in nome della tua profonda fede nell’islam e in barba a qualsiasi mio ed altrui richiamo alla sensatezza (...) Hai goduto di un’apertura di credito da parte mia, invece, figlia proprio della mia attrazione e del mio rispetto per quell’islam che con tanto ardore rappresenti, ed ho accolto la tua sfida: "Fidati di me e sposami subito". "D'accordo". Capivo bene, e la continuo a capire, la tua urgenza di metterti in condizione di "potere restare dietro una porta chiusa" con la sottoscritta. Solo che l’obbligo di contrarre matrimonio prima di poterlo fare non si esaurisce, per un musulmano, nella ripetizione burocratica di una formuletta. Il matrimonio islamico non è una magia o un miracolo che trasforma la carne femminile da haram ad halal, a mo’ di cristiana trasformazione dell’acqua in vino. Il matrimonio islamico serve a garantire alle donne dei diritti, ed è in questi diritti che si riflette la coscienza dell’uomo. (...) Di questi miei diritti, di questi tuoi doveri, non se ne è vista manco l’ombra».
Lia lamenta l’assenza di un «normale rapporto affettivo tra persone serie, adulte e perbene», denuncia un comportamento violento («eri ormai talmente arrogante da concederti il lusso di tirarmi uno schiaffo») ma soprattutto rivela il prevalere di un comportamento morboso per il sesso: «Sei arrivato al punto di dirmi, nella stessa chat, che "no, questa settimana non vado a Milano, non posso portarti neanche una scatola" e poi, poche righe più sotto, spiegarmi nei dettagli che "se adesso venissi da te, slurp, ti farei questo e quello". Non so: cosa te la sposi a fare una donna se poi, in barba persino ai tuoi doveri di assistenza nei tre mesi successivi al divorzio, non ti chiedi sotto quale ponte stia andando a sbattere, e tutto quello che sai fare è esporle i tuoi sogni erotici quando ti gira di chiamarla?
Cosa c’entra l’islam? Cosa c’è di islamico nel non assumersi nemmeno l’ultima delle responsabilità: quella di avere le palle di stare zitto e viverti i tuoi languori in silenzio, fosse solo prendendo esempio dalla donna che, con tutto il fegato che tu non hai, in silenzio assoluto si sciroppa un incubo intero? Che cos’è esattamente il matrimonio islamico targato Ucoii, segretario nazionale deimiei stivali? Come ti permetti, come vi permettete di chiamare "islamico" un simile sconcio?». Lia chiede «il mio risarcimento, buonuscita o dono di consolazione», quantificandolo in 20 mila euro.
Ammonendolo che se Piccardo non accetterà la richiesta entro il 13 ottobre, «impegnerò tutte le mie energie per fare chiarezza su ciò che, a quel punto, sarebbe inequivocabilmente confermato come un uso fraudolento e blasfemo di una supposta benedizione divina sui coiti realizzati sotto l’egida dell’Ucoii, a partire dai tuoi». La condanna dell’Ucoii è netta: «L’esercizio istituzionalizzato da parte di un’organizzazione a sfondo religioso di prassi che, nel mondo arabo—sto pensando al matrimonio orfi (segreto, ndr) egiziano — vengono percepite come una forma di prostituzione legalizzata, è disdicevole. A volere essere gentili». Nel finale Lia dà libero sfogo al proprio sarcasmo: «Non mi sfugge, per contro, la ricaduta a breve termine che la pubblicizzazione delle nostra esemplificativa vicenda potrebbe avere sui musulmani del nostro Paese che, davvero, non meritano di essere rappresentati e messi in imbarazzo da un Alberto Sordi dell'islam italiano».
Fino al 30 dicembre scorso, Lia nel suo blog ha minacciato di fare il nome di Piccardo: «Dovrei raccontare, a questo punto, dell’ultimo acquisto della galleria di mostri di cui è composto l’islam italiano che ho la ventura di conoscere. Non so se ne ho voglia. Eppure, scriverne si deve». Ebbene ora sappiamo chi è il protagonista di questa telenovela «sado-poligamica» dell’islam italiano. Non è l’unico e non sarà probabilmente l’ultimo di cui vi racconteremo la storia intima, di per sé squallida,ma di cui dobbiamo occuparci. Perché sono questi «musulmani di professione» gli interlocutori che lo Stato predilige e che, grazie all’imperversare dell’ignoranza, del buonismo e della collusione ideologica, stanno già praticando la sharia islamica in Italia. Non ci resta che sperare nelle donne che, al pari di Lia, ci costringano ad aprire gli occhi.
Magdi Allam
16 gennaio 2007

10/01/2007

De la purée à la place du cerveau

medium_arton11150.2.gifLe numéro de janvier-février de la revue française "Historia Thématique" a été interdit de distribution en Tunisie pour avoir publié une "image du Prophète et de ses compagnons", selon une source officielle à Tunis. "Une telle représentation, formellement interdite en islam, est de nature à heurter les sentiments religieux des Tunisiens", l'islam étant religion d'Etat en Tunisie.

www.figaro.fr

Cio' che l'Occidente non sa capire

L’Europa (ma su questo anche gli Usa faticano) non capisce la natura dell’Islam contemporaneo, di quello iraniano e degli Hezbollah, come di quello salafita di al Qaida.
Non è la prima volta. Di fronte ad ogni totalitarismo, le democrazie non comprendono, faticano a cogliere perché qualcuno vuole distruggerle.
E’ la sindrome della banchina di Auschwitz. Tanti ebrei tedeschi, che pure avevano visto la notte dei cristalli, le leggi razziali, che per giorni avevano vissuto negli escrementi dei carri bestiame, lì, sulla banchina su cui erano vomitati dai vagoni, protestavano increduli con l’ufficiale Ss: “Aber… ich bin deutsch!!!”, “Mai io sono tedesco!!!”
Ancora non capivano.
Europa e America rifiutarono di comprendere che si stava consumando la strage, rifiutarono più volte persino di bombardare Auschwitz, come i prigionieri chiedevano tramite la resistenza polacca.
Ancora oggi si stenta ad accettare che quello hitleriano, nel suo orrore, era un progetto “salvifico”, che solo questo spiega perché centinaia di migliaia di tedeschi sterminarono sei milioni di ebrei per costruire un mondo migliore, per “l’Uomo Nuovo”. Ancora oggi si crede che i nazisti fossero essenzialmente mossi da pura bramosia di assassinio, belve assetate di sangue
L’utopia: le democrazie non sanno ammettere che, nella modernità, il totalitarismo altri non è che un sistema –dei sistemi- per incarnare nella storia una utopia. Per eliminare tutti quelli che l’ostacolano.
La stessa “radice dell’odio” contro l’occidente –e la cristianità, e l’ebraismo- di tanta parte della platea islamica non è “nei torti dell’occidente”, è ben altra, si è formata ben prima che Israele nascesse, in una fase in cui gli Usa erano assolutamente assenti dalla scena mediorientale.
E’ scaturita da una formidabile azione scismatica avvenuta tra il 1930 e il 1979 nel corpo dell’Islam, da scismi basati su una ideologia totalitaria e sopraffattrice sia della società musulmana che dei rapporti con le altre religioni.
E’ quell’Islam -non tutto, ma sempre più forte- che intende fare proselitismo con la spada. Come fece Maometto. Come ha denunciato Benedetto XVI.
Oggi l’utopia in marcia è l’Islam jihadista.
Un Islam “rivoluzionario” che avanza con due punti di forza spesso in conflitto tra loro. L’Islam che ha trionfato con la rivoluzione di Khomeini in Iran e l’Islam wahabita, radicato in Arabia Saudita, che si è imposto fuori dalla penisola arabica con il jihad vittorioso che ha sconfitto i sovietici in Afghanistan.
Benedetto XVI ha compreso pienamente il fenomeno, ha condannato una Guerra Santa che nasce da una concezione di un Dio che è puro arbitrio, non a immagine dell’uomo, non comprensibile con la fede e la ragione, e ha condannato un proselitismo in suo nome fatto di violenza –il Jihad- offrendo contemporaneamente, con una continua, sottintesa citazione di Averroé, una straordinaria apertura di dialogo. E’ stato insultato, vilipeso.
L’Islam si è offeso perché il Jihad che il pontefice ha rigettato è ben più della Guerra Santa. E’ fede slegata dalla ragione, è negazione della stessa autonomia della scienza dalla fede. E’ una concezione della vita prevaricante.
Il Jihad, non è come si crede, una risposta eccessiva alla prevaricazione imperialista dell’occidente. La concezione jihadista iraniana e salafita si basata sulla riproposizione, oggi, del modello maomettano del proselitismo armato, di conquista. E’ smania di egemonismo: sulle altre religioni, sulla donna, sugli stessi musulmani ossessionati dall’apostasia, sui musulmani che non si piegano a questo o a quell’Islam.
Il jihadismo è diffuso nel mondo musulmano come ambizione di egemonia su tutto e su tutti.
E’ insito nell’Islam moderno.
E’ l’avversario dell’occidente, perché, come spiega al Ghazali, “tutto è scritto nel Corano”, perché ragione e scienza non hanno spazio se non dentro le maglie strette delle sue sure.
Il terrorismo jihadista ne è solo l’estrema manifestazione.
L’occidente laico non afferra questa essenza teologica del Jihad, ancora quella guerra santa alla sua concezione della guerra, a Westfalia. Pensa che sia sempre collegata alla “terra”, ai confini, ai rapporti tra Stati.
Accecato dal falso mito della tolleranza islamica nei confronti degli ebrei, rifiuta di guardare, di accettare un antisemitismo musulmano che pure è profondamente radicato nella tradizione coranica.
Pure, lo Statuto di Hamas esplicito: “L’ultimo giorno non verrà fino a quando tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e gli uccideranno…”. E qui, l’occidente laico e laicista non comprende proprio il terribile verdetto.
Non vuole prendere atto che l’appello di Ahmadinejad a distruggere Israele ha convince, persuade, penetra profondamente nel ventre della umma. Non comprende neanche che Ahmadinejad non è un dittatore qualsiasi: è un dirigente rivoluzionario che dispone del consenso di una notevole massa critica, formatasi nella rivoluzione del 1979 e tutt’ora operante.
Ahmadinejad attende l’epifania del dodicesimo Imam e viene svillaneggiato da giornalisti approssimativi per i suoi deliranti progetti di apparecchiare un grande boulevard di Teheran per l’atterraggio. Un delirio non è capito dall’occidente laico, che non lo digerisce. Non lo afferra.
Ma Ahamadiejad sa di rappresentare un Islam in cui palpita un messianesimo vivo. Non c’è documento politico di rilievo, a partire dalla Costitituzione iraniana che non finalizzi la società dell’Islam all’apocalisse: “La Repubblica Islamica è un sistema che si basa sulla fede nel Giorno del Giudizio Finale e nel suo ruolo costruttivo nell’evoluzione perfettibile degli uomini verso Dio.Non nega, insomma, solo la separazione tra Stato e Religione, lo Stato stesso e la sua funzione sono subordinati al cammino verso l’eternità.
Lo Stato Etico sino all’Apocalisse, viene riproposto con tutta la forza, non di una ideologia anticristiana e antireligiosa, come il nazismo e il comunismo, ma con la penetrazione e la forza di una tradizione religiosa più che millenaria.
Combattere il Jihad, convertire con la forza gli infedeli è quindi una urgenza impellente, insita nella fede come nello Stato.
Lo scopo, il fine dello Stato è condurre le anime e i corpi dei cittadini verso il Giudizio Universale (che avverrà a ultimo ebreo ucciso, per inciso). Ogni strategia, ogni tattica politica dei movimenti fondamentalisti dal 1979 in poi è finalizzata all’Ultimo Giorno. Questa concezione dell’uomo nel tempo cadenza la politica, in particolare quella iraniana.
Questo senso escatologico dello Stato, non solo della vita del singolo, ha fascino.
Lega a sé un consenso crescente, Minoritario, ma attivo.Questo non viene compreso in occidente.
Il senso laico dello Stato, il relativismo, l’imporsi di una religiosità new age, fanno da velo al riconoscimento di questa dinamica musulmana. Pure, Ahmadinejad, i Fratelli Musulmani, Hezbollah e Bin Laden sono chiari, espliciti.
Qui si inserisce la grande crisi tra l’Europa e l’America di Bush.
La caratura evangelica del percorso umano di George W. Bush, la tradizione fondante gli States (i padri pellegrini), lo hanno portato a intuire “l’Asse del Male”.
Bush ha afferrato il messaggio delle Twin Towers. Vi ha subito scorto quello che gli autori volevano significasse: un presagio di Apocalisse.
Da qui la reazione, il senso etico che da quel giorno impregna i suoi discorsi.
Da qui la sordità della cultura europea che –prigioniera della dea Ragione- legge tutto con ridicoli, ripetitivi schemi: un po’ di marxismo, un po’ di terzomondismo, un po’ di antimperialismo. Da qui lo sconcertante Ralf Dharendorf che definisce il terrorismo islamico “una banda criminale”. Una Spectre.
L’equivoco più grande in cui si crogiola il mondo politically correct, si basa sull’illusione che in Iran, Libano e Palestina, il movimento islamico abbia una intrinseca natura irredentista.
Timothy Garton Ash, citato da Fassino, D’Alema, sostiene che Hezbollah può evolvere in un movimento politico come l’Ira e l’Eta, cammino che va favorito riconoscendogli le sue giuste rivendicazioni nazionaliste.
Ma Ahmadinejad, Hezbollah, Assad, Hamas e al Qaida vivono un nazionalismo che non punta alla liberazione della terra. Non sono nazionalisti. Per loro non c’è terra, non c’è nazione, se non c’è shari’a.
“Pace contro territori” è da anni la formula magica per risolvere il conflitto arabo-israeliano. E’ fallita, ma è sempre la prospettiva su cui si muove la diplomazia mondiale.
Fassino, che pure è uno dei più sinceri filosionisti della sinistra italiana, sostiene che “in Palestina non si fronteggiano due torti, ma due ragioni: Israele deve vivere nella sicurezza e i palestinesi devono avere il loro Stato”. Bell’aforisma, ma falso.
Le due ragioni esistono e hanno pesato negli 87 anni di crisi palestinese, ma sono sovrastate da un immenso torto di parte araba: il rifiuto di Israele per ragioni legate al Giudizio Universale, al rapporto dell’Islam col suo Dio, alla concezione totalitaria dei “territori” della cultura musulmana.
Lo Statuto di Hamas (movimento che incarna l’alleanza sciita-sunnita tra Iran, Siria, Hezbollah e Fratelli Musulmani) è definitivo: “La terra di Palestina è un deposito legale (waqf), terra islamica, affidata alle generazioni dell’Islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare a nessuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel suo insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e i presidenti messi assieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite, hanno il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’Islam sino al giorno del Giudizio. Chi, dopo tutto, potrebbe arrogarsi il diritto di agire per conto delle generazioni dell’Islam sino al giorno del Giudizio? Questa è la regola nella legge islamica, la shari’a, e la stessa regola si applica ad ogni terra che i musulmani abbiano conquistato con la forza, perché al tempo della conquista i musulmani l’hanno consacrata per tutte le generazioni dell’Islam sino al giorno del Giudizio”
Questa perfetta sintesi dell’egemonismo jihadista –quello contestato da Benedetto XVI- lega indissolubilmente il territorio alla applicazione della legge coranica e ne dichiara eterno il diritto al possesso, una volta conquistato con la forza. Non più solo il nazista “Blut und Erde”, ma “Blut und Heilige Gesetz und Erde”.
Il jihad racchiude in sé la sua valenza escatologica, salvifica. Compiuta la conquista, imposto con la spada il proselitismo dell’infedele, la terra èsantificata dall’applicazione della shari’a, che ne sigilla il possesso al popolo dell’Islam.
Il laicismo e il relativismo in Europa, non riescono neanche a intuire questo straordinario movimento di fede apocalittica, come ben si comprende nella vicenda del velo in Francia.
Nel 2003, Parigi decise uno straordinario sforzo di analisi della realtà multireligiosa della Francia. La commissione Stasi sviluppò così una formidabile inchiesta sul territorio e descrisse a una inquietante fotografia della Francia: l’integrazione multiculturale non ha funzionato, lo spirito d’appartenenza e di clan su qualsiasi altro collante sociale e genera episodi intollerabili di violenza, di cui le donne musulmane sono le principali vittime. La rivolta delle banlieues, è ampiamente prevista. Prova di come gli strumenti scientifici delle scienze sociali in Francia rasentino la perfezione nella descrizione dei fenomeni. Ma solo nella descrizione dei fenomeni. Non delle loro cause e quindi non dei loro rimedi.
Ancorata ad una meccanica volgare della complessità umana, tutta positivista, illuminista, laicista, la commissione propose i seguenti rimedi: istituzione di corsi per insegnanti sulla laicità, una festa della Marianna in onore della laicità (insopprimibile sogno giacobino della Festa della Dea Ragione) e infine la proibizione di ostentare nelle scuole segni religiosi (croce, kippah o velo).
Indicativa è la proibizione del velo, che è ben di più di un simbolo di appartenenza, ma consegue alla concezione della minorità della donna. Secondo la shari’a infatti, la donna non è in grado di gestire i suoi rapporti sociali, non è in grado di gestire nella società i messaggi sessuali del suo corpo e per questo deve coprirsi.
Un nodo culturale delicatissimo affrontato alla giacobina, con la proibizione, lo strumento poliziesco.
Due anni dopo i ghetti musulmani di Francia, come previsto dalla commissione Stasi sono esplosi.
Questa formidabile cecità del meglio della cultura politica francese, spiega ad libitum la parallela cecità –tutta laicista- della Francia nel comprendere le dinamiche che si muovono nei paesi musulmani, le crisi che agitano il Medio Oriente, la stessa essenza eversiva del regime iraniano.
Il tutto con uno straordinario effetto contagio sulla sinistra europea, orfana del comunismo e col marxismo, che si ancora al laicismo di scuola francese e quindi non è letteralmente in grado di riconoscere l’essenza escatologica, la dinamica rivoluzionaria, di massa, che segnano il cammino millenarista della rivoluzione iraniana e dei salafiti sunniti.

 www.carlopanella.it

Le minacce dei tagliagole di Allah

ROMA — La minaccia di morte è arrivata alla sua casella postale in Parlamento. Daniela Santanchè non nasconde di aver avuto paura quando ieri verso le 19, aprendo la busta proveniente da Londra, ha visto due fogli, uno in lingua araba, l'altro con un testo in inglese, attorniato dalle foto di Theo Van Gogh e Ayaan Hirsi Ali. Sopra e sotto le foto compaiono due scritte a mano in arabo: «Questa è l'ora della mia liberazione» e poi «È giunta la tua ora!». Il significato è inequivocabile, tenendo conto dell'abbinamento con la foto del regista olandese barbaramente sgozzato nel centro di Amsterdam il 2 novembre 2004 dal terrorista islamico Mohammad Bouyeri, dopo essere stato condannato come nemico dell'islam per aver diretto il cortometraggio «Submission», in cui si denuncia lo stato di violenza a cui sono sottoposte le donne nei paesi musulmani. Da quel giorno anche la deputata olandese Hirsi Ali, pure lei condannata a morte quale autrice del film, vive in clandestinità e ha finito per riparare negli Stati Uniti. Sotto le loro foto, compare una terza foto di una donna completamente velata, che riecheggia l'immagine in copertina del libro della Santanché «La donna negata. Dall'infibulazione alla liberazione». E «liberazione» è la parola che ritroviamo nel testo della minaccia di morte. Quest'insieme è a corredo di un breve testo in inglese, tratto dal sito della Bbc del 23 ottobre scorso, in cui si spiega che la Santanché «ha detto che il velo non è richiesto dal Corano» e che «è stata definita un'infedele da un imam».

In effetti la Santanché vive sotto scorta da quando, lo scorso 20 ottobre, a seguito della trasmissione Controcorrente su SkyTg24, fu pesantemente apostrofata come «un'infedele» che «semina l'odio», da parte di Ali Abu Shwaima, imam della moschea di Segrate e uno dei fondatori dell'Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia). A suo avviso la Santanché è una «ignorante» per aver sostenuto che «il velo non è un simbolo religioso, non è prescritto dal Corano». Per Abu Shwaima, che sogna di islamizzare l'Italia entro un decennio e che risulta poligamo sul certificato di stato di famiglia, «il velo è una legge che Dio ha mandato. È Dio che lo dice, l'uomo non può negarlo». Quindi la Santanché rischia la morte per il semplice fatto che sostiene che il velo non è un precetto islamico e difende il diritto delle musulmane a non indossarlo. Un diritto che, stando a un sondaggio pubblicato sulla sua rubrica su Il Giornale di ieri, viene rivendicato dall'85% delle musulmane in Italia. Non stupisce che la seconda pagina in arabo della condanna a morte della Santanché è un'aberrante apologia del velo rivolto alle donne musulmane residenti in Occidente: «Ci sono stati degli appelli peccaminosi che sono riusciti a traviare le musulmane, facendole togliere il velo e lavorare in tutti i settori. Qual è stato il risultato? Sono precipitate nei più infimi livelli della dissolutezza e della prostituzione. La donna moderna, come la definiscono, è uno strumento e un gioco nelle mani dei pervertiti e dei malvagi. O giovani musulmane, l'islam ha eretto una solida barriera per proteggerti dal libertinaggio. Il tuo hijab (velo) è la tua bellezza ed esso è preposto alla tutela del tuo onore». Segue una pesante invettiva contro la promiscuità: «La separazione netta tra uomini e donne è una necessità morale. La promiscuità è la fonte di tutti i mali e la causa di tutte le depravazioni.
O giovani musulmane, siate come Allah e il suo Profeta vi hanno voluto, non come vi vogliono i fautori della sedizione e della degenerazione». A rischiare la vita è anche un italiano di origine egiziana, Mohamed Ahmed, conduttore di La9, una televisione privata di Padova, che da tempo denuncia l'estremismo e il terrorismo islamico. Ebbene la scorsa notte hanno appiccato il fuoco alla sua auto, una Saab 900, parcheggiata sotto la sua casa. «È un atto di intimidazione — ha detto Mohamed — nei mesi scorsi ho ricevuto minacce di morte telefonicamente e per strada da parte di alcuni islamisti che frequentano il quartiere di via Anelli, che è vicino alla sede della mia redazione». Ma Mohamed non ha paura. Ha denunciato tutto e ha raccolto la solidarietà di molti padovani: «Oggi sono veramente fiero di essere italiano — ci ha detto — per me è un dovere continuare a impegnarmi per il bene dell'Italia».
Magdi Allam
10 gennaio 2007

08/01/2007

La rete mafiosa delle moschee

Le moschee crescono a ritmi vertiginosi. E in Europa gestire una moschea è diventato un affare colossale, un investimento economico redditizio che, in parallelo, garantisce uno straordinario potere politico e mediatico. Cherchez l’argent, recita il detto francese che sottintende che la pista principale dietro al crimine organizzato è di natura finanziaria. Bene ha fatto dunque il ministro dell’Interno Amato a sollevare la questione della trasparenza dei finanziamenti stranieri destinati alle moschee italiane. Ed è sempre alla Francia che egli guarda per una possibile soluzione, facendo riferimento alla «Fondazione per le opere dell’islam », dove far confluire tutte le donazioni, sotto il controllo di una istituzione finanziaria pubblica, la «Cassa dei depositi e dei prestiti». L’augurio è che Amato abbia in mente un progetto complessivo per la trasparenza, non solo dei finanziamenti, ma delle moschee e dell’islam d’Italia.E che sia consapevole che proprio il modello francese, incentrato sulla logica della «moscheizzazione » dell’islam, si è di fatto arenato dopo aver scontentato tutti e non essere riuscito a far decollare il p r o g e t t o d i un «islam francese». Ecco perché è necessario chiarire i punti cruciali dell’insieme della tematica dei finanziamenti e dell’islam in Italia.
Le moschee crescono a ritmi vertiginosi e vengono acquistate con denaro contante. Dobbiamo prendere atto che ci sono delle novità che hanno indotto il ministro dell’Interno a focalizzare l’attenzione sui finanziamenti alle moschee provenienti da Stati stranieri e che vi è una legittima preoccupazione per la nostra sicurezza nazionale. Noi possiamo constatare il fatto oggettivo che in Italia le moschee, intendendo tutti i luoghi di preghiera islamici, grandi, medi e piccoli, crescono a ritmi vertiginosi. Erano 400 nel 2000 e, al 25 maggio 2006, secondo l’ultimo rapporto semestrale del Cesis, sono diventate 628, registrando cioè un aumento del 63% in sei anni. Al tempo stesso è da rilevare che la gran parte delle nuove moschee vengono acquistate direttamente con denaro contante. E si tratta di una tendenza in forte crescita.
Gestire le moschee è diventato un business colossale. Quando nel novembre 2004 l’allora ministro dell’Interno francese Dominique de Villepin propose di creare una «Fondazione per le opere dell’islam», ovvero un ente dedito alla raccolta dei fondi per la costruzione delle nuove moschee e alla formazione degli imam francesi, l’Uoif, che lì rappresenta i Fratelli Musulmani, rifiutò inizialmente l’idea. Il suo presidente, Fouad Alaoui, sostenne: «Non abbiamo bisogno di questa fondazione né dell’aiuto dei poteri pubblici. Ci sono già delle strutture per raccogliere le donazioni dei musulmani». Al riguardo disse: «I soldi del Golfo sono minimi nel finanziamento delle moschee. Soltanto nel mese del Ramadan, nelle moschee in Francia sono stati raccolti tra i 15 e i 20 milioni di euro»! Difficile dire se siano veramente soldi versati interamente sotto forma di donazioni dai circa 500 mila musulmani francesi che frequentano le moschee, ma di certo è una cifra considerevole. Formalmente l’Uoif ha poi fatto marcia indietro. Il 20 marzo 2005 il Consiglio d’amministrazione del «Consiglio francese del culto musulmano», di cui fanno parte i dirigenti di quattro sigle che fanno riferimento alle moschee tra cui primeggia l’Uoif, ha espresso il suo appoggio all’unanimità al progetto della Fondazione. Ma da allora nulla di sostanziale è successo. Di certo gestire una moschea in Europa è diventato un vero e proprio business, un investimento economico altamente redditizio e che, in parallelo, garantisce uno straordinario potere politico e mediatico.
Le moschee sono rette da gestori autocrati e corrotti. Proprio l’esperienza francese deve indurci a far tesoro dei suoi limiti. Il primo dei quali è la concezione di un islam «moscheizzato», ovvero che si appiattirebbe sulle moschee. Il fatto certo è che la maggioranza dei musulmani non appartiene al «popolo delle moschee» e non si sente rappresentata dai gestori delle moschee. Che cosa significa? Che l’impegno dello Stato per la trasparenza delle moschee deve accompagnarsi di pari passo con l’impegno a affermare un «islam italiano», affrancato dal monopolio delle moschee. Che, a maggior ragione se registrate come Onlus per poter concorrere nell’attribuzione di fondi pubblici sia dagli enti locali sia dal 5 per mille delle detrazioni fiscali degli italiani, devono tassativamente operare nel rispetto delle leggi, rendendo pubblici i loro bilanci, rispettando gli statuti specie laddove è prevista la eleggibilità delle cariche. Invece le moschee sono rette da gestori autocrati e corrotti, che non sono stati eletti, che non hanno alcun mandato o programma, che non rispondono a nessuno dei soldi in entrata e in uscita. In Italia la Chiesa e laComunità ebraica rendono pubblici i loro bilanci, mentre quelli dell’Ucoii e delle sigle islamiche sono top-secret. Ci deve essere trasparenza non solo per i soldi che arrivano dall’estero, ma anche per come vengono gestiti in Italia e infine per i soldi che dalle moschee d’Italia vanno all’estero come donazioni a enti e singoli in aree coinvolte nelle guerre e nel terrorismo islamico.
Lo Stato deve co-gestire la realizzazione di un «islam italiano». Tutto ciò si traduce nel fatto che lo Stato, per poter co-gestire la trasparenza dei finanziamenti alle moschee, deve necessariamente co-gestire la realizzazione di un «islam italiano». È questo il fulcro dell’approccio francese che, prendendo atto della specificità dell’islam in quanto religione priva di un unico referente sul piano della rappresentatività e della fede, ha accettato il fatto che è lo Stato che deve necessariamente forgiare l’islam nel contesto nazionale. Compresa la formazione di «imam nazionali». Ciò che impone di superare sia le resistenze di coloro che considerano l’intromissione dello Stato nella religione un sacrilegio laico, sia l’opposizione degli integralisti ed estremisti islamici che mirano in ultima istanza a sostituirsi allo Stato di diritto per imporre il loro potere assoluto. Per l’Italia è una sfida immane che, al momento, vede avvantaggiati gli estremisti islamici che sono riusciti a paralizzare la Consulta dell’islam italiano, istituita proprio per favorire la nascita di un islam compatibile con le nostre leggi e valori. È una missione storica che potrà essere vinta se affrontata non con l’ottica limitata della sicurezza, ma con la visuale ampia del modello di Stato e di civiltà che l’Italia vorrà darsi nel mondo sempre più globalizzato.
Magdi Allam
06 gennaio 2007

04/01/2007

Pourquoi il ne faut pas confondre MPF et FN

A l'approche des élections présidentielles, on entends de plus en plus parler d' "union des patriotes" pour reunir sous une seule et unique bannière tout ceux qui pensent que la France est malade des conséquences de vingt ans de politique de laxisme, d'assistanat et de déresponsabilisation.

Neanmoins il ne faut pas se tromper, en pensant que le vote FN et MPF repond à une même logique de sortie de cette grave empasse dont on est loin d'avoir touché le bout.

Il est donc primordial de rappeler que:

- Le FN est né comme un mouvement fascisant, nostalgique de la période d'occupation hitlerienne, dont il n'a d'ailleurs jamais condamné la nature criminelle

- Le FN a contribué à héberger en son sein des revisionnistes notoires, qui nient l'existence des chambres à gas et de la solution finale, sur fond d'antisémitisme viscéral

- Le FN pratique une politique d'approche avec certains régimes, du passé comme du présent, ayant comme caractéristique l'absence d'état de droit et des libertés fondamentales, comme cela a été le cas du régime de Saddam Hussein ou même de l'Iran d'aujourd'hui, à qui le FN accorde le droit de se munir de l'arme nucléaire

- Le FN colporte des thèses économiques de type national-socialiste dont l'histoire nous a déjà montré les résultats catastrophiques

Tandis que:

- Le MPF est un mouvement démocratique qui revendique l'héritage de la résistance au nazi-fascisme

- Le MPF se bat contre toute forme de racisme et d'antisémitisme

- Le MPF refuse que la France ait des rélations amicales et de parténariat  avec des Pays qui ne respéctent pas les droits de l'homme et, en ce sens, s'oppose au nucléaire iranien et à la politique des lèche-pieds envers les communo-capitalistes rouges chinois

- Le MPF croit dans les valeurs de l'économie libérale, la SEULE qui ait montré sa capacité à améliorer le niveau de vie de la société

- Le MPF se bat de manière explicite et sans compromis contre la politique d'islamisation de la France, PREMIER danger pour la cohésion et la paix sociale d'aujourd'hui et de demain, conscient du fait que la doctrine musulmane est la CAUSE de l'incapacité d'intégrations de certaines communautés, et qu'elle est INCOMPATIBLE avec la société de droit et avec les valeurs fondatrices de la société française: LIBERTE , EGALITE, FRATERNITE

Alors, surtout......PAS D'AMALGAME!!!

 

02/01/2007

Surtout...pas de vagues!

Bonjour à tous

Comme tous, je suis horrifiée par le drame qui s'est déroulé à Meaux.

Un petit garçon de 12 ans est mort parce que battu par des élèves qui l'ont roué de coups et qui ont continué, très "loyalement", à le bourrer de coups alors qu'il était sans doute déjà décédé. Mort de peur et de stress. Mort pour rien, la peur au ventre. Mort parce que des gamins de 11 ans sans aucune conscience ni peut-être valeurs morales apprises chez eux se mettent à plusieurs pour attaquer un de leurs camarades de classe.

Ce qui me choque c'est qu'au fil des heures, les médias bien pensants changent de version ; encore quelques jours, et on va nous dire que son décès n'a strictement rien à voir avec la violence avec laquelle il a été attaqué. A-t-on idée d'avoir une malformation cardiaque ! J'aurais bien aimé connaître le nom des agresseurs, car je crains bien qu'ils ne s'appellent ni Audrey ni Sébastien. Et à mon avis, si un petit maghrébin était mort de la même façon, le maire de Meaux si satisfait de sa lutte contre la violence aurait eu à faire à 3 bus et 200 voitures brûlées....

Je dois ajouter aussi que je suis lasse d'entendre qualifier de "sensible" des quartiers ou des écoles que je qualifierais, moi, de pénibles. La sensibilité est une qualité de l'âme, et ce mot est dévoyé. Tout comme est dévoyé le mot "jeune", qui maintenant définit plutôt la racaille que la jeunesse. Il y des tas de "jeunes" qui ne brûlent ni les gens, ni les voitures, ni les bus, qui ne dealent pas dans les caves, qui ne violent pas, ne transforment pas les lieux publics en champs de batailles ; si les médias cessaient de parler des brutes et des barbares, on assisterait peut-être à moins de violence. La presse et l'audio-visuel contribuent à ladite violence, puisque pour ces "casseurs" tout est bon pourvu que l'on parle d'eux.

Combien de petits martyrs faudra-t-il pour que les gauchos qui dirigent les écoles se mettent à penser en d'autres termes que ceux de "pas de vagues" ? ? ?

Pour ma part, afin que mes enfants aillent à l'école avec bon coeur et sans la peur au ventre, donc dans de bonnes conditons,je les ai mis dans une école privée. On peut ainsi échapper à la carte scolaire (bien des enseignants -et chacun le sait- s'arrangent pour contourner ladite carte lorsqu'ils voient que leurs enfants risquent gros s'ils vont dans des écoles "difficiles"), et la discipline y est normale.

On dit bonjour aux professeurs, on se tait en classe, la politesse est la règle n°1 de ce collège.

Sont interdits : les baladeurs, les clés MP3, les portables (tout ça doit rester au vestiaire (chacun a le sien, avec un cadenas, ou dans les cartables) ; les lunettes de soleil, les casquettes et les baskets de marques sont aussi interdits pour éviter toute forme de rackett (je regrette, moi, l'uniforme, qui gommait les inégalités et ne prêtait bien entendu pas au rackett, chacun portant les mêmes vêtements, mais il est question de remettre ledit uniforme en usage, et ce serait une bonne chose).

Un élève pris en train de fumer dans la cour est immédiatement expulsé. Si une bagarre éclate (ça arrive) un surveillant ou un enseignant intervient immédiatement, sépare les belligérants, lesquels sont convoqués en urgence en conseil de discipline, avec un avertissement à la clef ; le deuxième avertissement est suivi d'une exclusion de 3 jours, et il n'y a pas de troisième avertissement car c'est l'exclusion définitive.

Autre avantage : en 4 ans, seul un enseignant a fait 1 journée de grève, et l'établissement-si grève importante il y avait- s'engage à garder tous les élèves.

Ceci est un avantage énorme pour les parents qui travaillent, et notamment pour les familles monoparentales qui ont parfois bien du mal à concilier les horaires du travail et de l'école, sans compter que les petits de 6ème ne sont pas forcément aptes à se débrouiller dans les transports en commun, surtout lorsque l'on connaît les dangers qui les guettent (ils sont bien souvent petits de taille, en 6ème, ils sont naïfs et donc une proie facile pour les "barbares" qui hantent nos métros, bus et R.E.R.).

Un autre avantage, c'est que la plupart de ces établissements privés sont à taille"humaine" ; lorsque vous avez 24 élèves par classe, il est bien évident que le travail des enfants y est mieux suivi ; la meilleure preuve est que les élèves issus du privé ont un taux de réussite au Bac approchant les 90%, contre 70% environ dans le public. Enfin, on peut assister aux cours de catéchisme, mais celui-ci n'est en aucun cas obligatoire. Il y d'ailleurs dans ce collège des enfants de confessions différentes et tout se passe très bien.

Le prix à payer pour l'établissement dont je parle n'excède pas 60 euros par mois. Pour une somme qui représente moins que la consommation de "x" paquets de cigarettes (pour ceux qui fument), votre enfant aura une sécurité qu'il risque bien de ne pas avoir dans certains collèges ou lycées.

Pour ma part, la sécurité de mes enfants vaut bien plus que 60 euros par mois de scolarité.

Dans ma famille, personne n'est spécialement croyant mais tous les enfants sont dans le privé. Nous voulons qu'ils aient une très bonne éducation, et qu'ils aillent en classe dans le même état d'esprit que celui que nous avions voici 20 ans : la paix au coeur.

Malheureusement, le petit Karl n'aura pas eu ce bonheur ; pour lui, à quelques jours d'un Noël qui aurait dû être- comme pour nous- tous une grande fête familiale, pleine de bonheur et de joie, et qu'il attendait sûrement avec impatience comme tous les enfants du monde, l'école a été son tombeau.

Nous penserons tous à toi , Karl, victime innocente d'un système que je ne cesserai jamais de combattre.

ANTIPOISON

www.france-echos.com

20/12/2006

Ces marxi-humanistes à sensibilité variable

medium_massgrav.gifPinochet est mort. Champagne pour les boursicoteurs de l’humanisme !


Avec la verve corrosive qui fit sa réputation, Sacha Guitry écrivait dans Les mémoires d’un tricheur: «Celui qui n’a pas vu onze cadavres n’a pas une idée du nombre de cadavres que cela fait». C’est assez dire que tous ceux que la providence a dotés d’une once d’humanité ne sortiront pas leur mouchoir à l’annonce de la mort d’un dictateur qui, après avoir assassiné un président élu démocratiquement, lors un putsch sanguinaire et fait régner la terreur sur tous ceux qui faisaient mine de porter à gauche, a fait assassiner quelque 3000 opposants par ses escadrons de la mort.

On peut gager que l’église St Nicolas du Chardonnet, ne faillera pas au pieux devoir de lui consacrer une messe, comme ce fut le cas pour Léon Degrelle, Maurice Bardèche et quelques autres éminences de la pensée blafarde. On aurait cependant tort de prendre ces allumés de l’Occident carnassier et de la messe en latin pour des spécimens.

Car si les indécrottables adeptes de convictions politiques à vocations foncièrement humanistes – puisqu’elles sont de gauche, enfin quoi ! – ne manqueront pas de sabler le champagne à l’annonce de la disparition d’un ennemi de l’humanité, comme ils le firent jadis pour Franco, Salazar, Papadopoulos et quelques autres du même acabit, ce n’est pas un luxe coupable d’établir ici que leur bonne conscience politique, blanchie régulièrement avec une lessive dont le brevet est décidément à saisir, est en réalité plus noire qu’un essaim d’ayatollahs dans une mine de charbon, pendant une panne de l’EDF.

Pendant que dans les salles obscures on pleurait – il y avait de quoi – en regardant Il pleut sur Santiago et que les gavés du baby-boom hurlaient US go home ! Un certain Pol Pot, qui avait fait ses études dans les universités de la patrie des Droits de l’homme où le PCF lui avait enseigné quelques rudiments d’humanisme, entreprenait l’extermination méthodique d’un pays entier, en commençant pas ses intellectuels, et en détruisant tous les symboles (banques, temples, églises, écoles, universités et cellules familiales) de ce qui avait contribué au développement du pays. Un centre de torture, le sinistre S-21, était implanté à Phnom Penh pour prendre en charge les prisonniers politiques. Sur les 20 000 internés, il y eut sept survivants. Selon l’expression de De Gaulle à propos du camp de Ravensbrück : «certains s’y sont probablement tellement plus qu’il y sont restés». Le sinistre Pinochet faisait déjà pâle figure à côté des performances du Kampuchéa… Démocratique, bien sûr (et quoi d’autre ?!)

Mais 20 000 cadavres n’étaient qu’une entrée. C’est en tout 1 500 000 personnes que Pol Pot et ses Khmers rouges assassinèrent par le travail forcé, la famine, les purges, et les maladies. Personne, pas un juge, pas un tribunal, pas même le très vénéré Tribunal Bertrand Russel, lequel ne s’occupait que des criminels d’extrême droite (c'est-à-dire les vrais criminels), ne songea un instant à faire inculper Pol Pot, lequel après avoir été chassé par les Viets, coula des jours tranquilles dans une luxueuse villa Thaïlandaise en se livrant au trafic de bois et de pierres précieuses. Malgré les efforts déployés par les USA pour le capturer, afin de le traduire en justice, Pol Pot mourut de sa belle mort, même s’il subsiste quelques mystères sur les conditions de celle-ci.

Où était le grand Sartre pendant cette boucherie? C’est que, chers lecteurs, ne pas désespérer Billancourt, ça occupe !

Mais Pol Pot avait un maître dont les leçons n’avaient pas été perdues. Car c’est en Chine auprès de Mao Zedong que le fondateur des Khmers rouges trouva – assez paradoxalement tout de même – son chemin de Damas. Comment en effet ne pas avoir été inspiré par l’hécatombe issue de la Grande famine organisée par le Grand Timonier au cours des années 58-61. Une industrialisation forcenée, la collectivisation radicale des terres et des méthodes d'agriculture charlatanesques firent entre 30 et 50 millions de victimes. Pour la petite histoire, cette période s’est appelée le Grand Bond en avant… Pour référence, lire La grande famine de Mao : 30 à 50 millions de morts par Jasper Becker (Ed. Dagorno) traduit de Hungry Ghosts. Pinochet nous fait déjà pitié mais le «bond en avant» ne s’est pas arrêté là.

Dès le milieu des années soixante, le Grand Timonier qui désire rallier la jeunesse envoie 50 000 jeunes Gardes rouges armés du «Petit livre rouge» à l’assaut des «révisionnistes». Tortures, autocritiques, humiliations et exécutions publiques. Leur grand slogan : «On a raison de se révolter». Pierre Dac faisait mieux avec son «Pour tout ce qui est contre et contre tout ce qui est pour», mais lui au moins n’a fait qu’un million de morts… de rire. Mao lui, ne plaisantait pas avec l’humour. Et pendant ce temps, Serge July inspiré par une Chine en pleine rédemption des âmes, créait Libération. Il est vrai qu’à l’époque, il n’avait pas encore fait connaissance avec Édouard de Rothschild…

Mais Mao lui-même avait déjà un maître. J’ai cité le «Petit père des peuples» dont le bilan, jamais égalé, ne peut faire que des envieux parmi les «humanistes» à la conscience immaculée. Joseph Staline, soi-même, organise en 1932-33, la «dékoulakisation» en Ukraine laquelle se solde par ce qu’on appelle en ukrainien l’ «Holomodor» ou l’extermination par la faim. Bilan: les chiffres sont l’objet de controverses parmi les historiens, mais 6 000 000 paraît assez probable. Et si après son voyage en URSS, André Gide crut bon de revoir sa copie, d’autres, même après les infâmes procès et autres purges staliniennes de 1938, maintinrent une foi en Staline qui, avouons-le, force l’admiration.

Ainsi Paul Eluard, à l’époque de Liberté j’écris ton nom, écrivait ces vers (restez bien assis) :

Et Staline pour nous est présent pour demain
Et Staline dissipe aujourd'hui le malheur
La confiance est le fruit de son cerveau d'amour
La grappe raisonnable tant elle est parfaite


Et le Goulag n’en était qu’à ses débuts… (Qu’eut-il écrit de Pinochet?)

Quant à Sartre, qui l’avait mauvaise des faux procès faits par les bourgeois au Parti Communiste, il écrivait en 1963: «Tout anticommuniste est un chien». De là est peut-être née la vocation de Brigitte Bardot; parce que ça faisait du monde…

Mais comme l’a admirablement chanté Jean Ferrat: Le sang sèche vite en entrant dans l’Histoire. À cet égard justement, plût à Dieu qu’il eût définitivement séché et que les apôtres du «Plus jamais ça» eussent pris une leçon ferme et définitive lorsque les portes de l’épouvante se sont ouvertes devant leurs yeux hagards en 1945.

Pensez-vous! Depuis des décennies, les horreurs se sont accumulées sous les regards impassibles des chancelleries, lesquelles auraient certes préféré qu’elles ne s’accumulent pas. La bonne pensée vaut un hommage certes. Et les auteurs, intentionnels ou passifs, des hécatombes qui jalonnent l’histoire de l’après-Shoah, font ressembler Pinochet à un personnage de Walt Disney. Parmi eux, d’éminentes personnalités lesquelles n’ont certes pas toujours commandité mais qui ont laissé faire parce que où irait-on ma bonne dame si on faisait de la politique en lisant la Bible tous les matins comme ce «bigot nazi» de George W. Bush?

Ainsi, ce Charles de Gaulle qui descendait les Champs Élysées, ce 26 Août 1944, pendant que les cloches de Notre-Dame tintaient comme jamais auparavant et qui affirma le 4 juin 1958 «Français je vous ai compris». Quatre ans plus tard, la France abandonnait quinze mille Harkis, des Juifs, des Pieds-noirs, au FLN qui leur fit un sort sensiblement aussi enviable que celui infligé par Pinochet à ses opposants.

Auparavant déjà, Claude Bourdet, ancien membre du Conseil National de la Résistance, publiait le 13 janvier 1955, dans le Nouvel observateur, un article intitulé «Votre Gestapo d’Algérie», dans lequel étaient décrites avec force détails hallucinants, des supplices infligés à des Algériens (baignoire, empalement, j’en passe…). À l’époque, le ministre de l’Intérieur n’était pas Ariel Sharon. C’était un socialiste nommé François Mitterrand, appelé à un grand avenir politique.

Auparavant encore, le 30 mars 1947 à Madagascar, à la suite d’une insurrection, 166 otages étaient enfermés dans des wagons plombés. Suite à une rumeur d’évasion, l’armée fit feu sur le train. Les 71 survivants furent enfermés et torturés. Puis le général Casseville signa leur exécution. Un seul survécut pour raconter l’horreur. Là encore, la France n’était pas aux mains de la Milice de Joseph Darnand, mais des socialistes. L’actuelle ministre française des Armées peut faire un caca nerveux pour moins que ça, dès lors qu’il s’agit des Israéliens.

Mais Pinochet est encore bien loin de certaines performances.

Du génocide du Biafra par exemple, qui fit un million de morts. La sécession du Biafra – dont la population était catholique – fut alors largement encouragée par la France gaulliste. Puits de pétrole oblige. Et il faut croire qu’à quelque chose malheur est bon, puisque Médecins sans Frontières est né dans le sillage de cette horreur…

Mention très honorable également au très marxiste-léniniste général Mengistu, aidé par l’Union soviétique et des conseillers cubains, et qui instaura de 1977 à 1991, un régime de terreur en Éthiopie, après avoir assassiné Haïlé Selassié. C’est un véritable fleuve de sang qui coula dans ce pays au long de ces années. Accusé officiellement de génocide (plus de 100 000 morts) il est actuellement réfugié au Zimbabwe dont le gangster en chef Robert Mugabe n’est pas près de le renvoyer.

Et puisqu’on en est à Mugabe, cet assassin que les Nations Unies ont fini par mettre au ban de l’humanité. Lui et le grand socialiste Laurent Désiré Kabila ont saigné à blanc l’Afrique des Grands lacs. Un accord de $ 200 000 000, cautionné par les actifs détenus par Mugabe, les a liés pour perpétrer un génocide en règle sur les populations de réfugiés. La Namibie, le Rwanda, l’Angola et la Lybie se sont joints à cette joyeuse orgie placée sous l’égide de «l'Alliance des Forces Démocratiques pour la Libération du Congo». À la clé évidemment, des intérêts dans des exploitations minières et autres vanités de ce bas monde. Pour l’International Rescue Committee (IRC), et Human Rights Watch (HRW) le nombre de Congolais morts entre 1998 et 2004 s’élève à 4 millions. À cela s’ajoute la dissémination à grande échelle du virus VIH suite à des viols dont le nombre pourrait quasiment s’écrire en virgule flottante.

Je m’en voudrais d’oublier le grand Charles Taylor qui a plongé le Libéria dans un chaos impensable et Foday Sankoh en Sierra Leone dont les enfants soldats ont amputé les bras de milliers de pauvres gens en leur proposant courtoisement auparavant: «Long sleeves or short sleeves?» («Manches longues ou manches courtes?»).

Devant toutes ces horreurs, la presse occidentale – généralement si attentive à déceler les bruits de bottes de Tsahal – nous offrit alors un silence radio qui devrait faire date dans l’histoire de l’acoustique.

Et puis il y a notre ineffable Saddam Hussein. Dictateur mégalomane et psychopathe à qui Jacques Chirac a vendu assez de matériel pour produire un Tchernobyl dont le nuage se serait déployé jusqu’à l’Élysée. Mais en attendant ce feu d’artifice, Saddam ne perdit pas de temps. Grâce aux bons offices de Hassan Ali Al Majid, – dit «Ali le chimique» – comme chef du bureau des affaires du Nord, c’est-à-dire du Kurdistan, il procéda à la déportation et au gazage des Kurdes. Pour prouver son efficacité, «Ali le chimique», dont les forces avaient été formées par la Stasi (la police politique de la RDA, laquelle possède la science des archives), fit filmer les massacres. Lors du soulèvement Kurde en 1991, une partie de ces archives furent saisies et transmises au HRW (Human Right Watch) qui les déposa à l’université du Colorado. Elles sont en principe accessibles sur Internet. Bilan de l’opération: 400 000 morts en 15 ans. (Source: Monde Diplomatique, Mars 1998).

Plus près de nous – géographiquement s’entend – il y a le sieur Poutine dont, si on en croit le «Monde», l’armée fait exploser les combattants tchétchènes par fagots. Entendre par là qu’elle attache quelques dizaines de prisonniers autour d’une charge explosive et boum !

En un mot, Pinochet était un fichu salaud, mais force est d’admettre que c’était un cancre.



Schlomoh Brodowicz pour LibertyVox

19/12/2006

Giustizia islamo-buffonica in Libia

medium_280px-Muammar_al-Gaddafi.jpgLe cinque infermiere bulgare e il medico palestinese condannati a morte oggi da un tribunale di Tripoli sono accusati di aver volontariamente inoculato nel 1998 il virus dell'Aids a 426 bambini libici nell'ospedale Al Fateh di Bengasi, 52 dei quali sono poi morti.
LA PRIMA CONDANNA - Valya Chervenyashka, Snezana Dimitrova, Nasya Nenova, Valentina Siropulo, Kristiana Valceva e Ashraf Ahmad Jum'a che sono in carcere da 7 anni a Tripoli, accusati in pratica di aver usato i bambini come cavie per sperimentare su di loro il virus dell'Aids prodotto in laboratorio. I sei erano stati già condannati a morte in prima istanza, ma poi nel dicembre scorso la Corte suprema aveva ordinato un nuovo processo cominciato in maggio.
APPELLI SCIENTIFICI - Sulla vicenda sono intervenuti famosi scienziati, che dalle pagine delle più prestigiose riviste The Lancet, Science e Nature hanno lanciato appelli ma anche studi per tentare di scagionare gli operatori sanitari, spiegando che si tratta piuttosto di un errore giudiziario e che il virus Hiv in quell'ospedale era già diffuso prima dell'epidemia del 1998. Le perizie di esperti hanno ampiamente dimostrato che le infezioni sono solo la conseguenza delle pessime condizioni igienico-sanitarie della struttura ospedaliera, ma questi risultati non sono stati considerati dalla giustizia libica. Con la ricerca degli italiani pubblicata all'inizio del mese sulla rivista britannica Nature c'è una prova molecolare in più.
LE CURE - Dei 426 bambini infettati molti sono ora in cura in Italia, come all'ospedale Bambino Gesù e all'Istituto Spallanzani di Roma e al Meyer di Firenze. Nei mesi scorsi ha preso il via anche un progetto di cooperazione europeo tra l'Italia e la Libia per la cura e la formazione del personale sanitario.
19 dicembre 2006

 

COMMENTO: il pagliaccio col libretto verde, mandante terrorista della strage di Lockerbie, fa giustizia a modo suo. In pratica sta aspettando un'offerta finanziaria europea per liberare questi poveretti/e di prigione. Allah akbar!